Senza entrare nei meriti o demeriti politici, nelle scelte di politica economica, nelle visioni di sviluppo e di crescita, l’Italia può correre un grande rischio: quello di una progressiva deindustrializzazione e di una perdita di strategia produttiva e di sviluppo tra i paesi dell’Occidente.

In quest’ultimo trentennio, con l’anno fatidico del 1992, l’Italia è entrata in una classica “crisi”, che ha soprattutto i connotati del cambiamento traumatico e la necessità di delineare gli scenari del futuro. In genere, e anche giustamente, crisi è un termine negativo, ma l’etimologia che deriva dal verbo greco “krino” può essere giudicato in altro modo e ha un significato leggermente diverso: separare, discernere, giudicare, valutare di fronte ai grandi cambiamenti che la realtà ci impone e che la storia ha preparato, come la “vecchia talpa” marxiana che scava sempre indefessamente.



È possibile, forse addirittura scontato, che la struttura italiana delle Partecipazioni statali dell’Italia del Novecento, dell’economia mista e dello Stato imprenditore, vivesse un momento delicato e avesse bisogno di un rinnovamento, sia per ampiezza che per imprenditorialità separata dalla politica. Ma lo smantellamento fu talmente ampio, improvviso e attuato secondo i criteri di una “svendita” piuttosto che di una oculata vendita, con pezzi magari da salvaguardare e tutelare nell’interesse nazionale. O magari da valorizzare prima di metterli sul mercato internazionale o nazionale.



Osservava invece in quel periodo Alain Minc, grande politico francese, evocando in un certo senso proprio gli stati generali: ”L’Italia vive, a modo suo, il periodo 1789-1793. Con una ghigliottina secca che decapita responsabili politici ed economici. Con una legge di proscrizione destinata a fare di quelli che ieri erano gli aristocratici al potere altrettanti esuli in patria. Con l’opinione pubblica nel ruolo dei sans-coulotte di due secoli fa. Con i giornali nella comoda posizione di giustizieri. Con i delatori in cerca di salvezza personale e all’occorrenza, grazie alle loro denunce, di scarcerazione. E con i paesi stranieri avidi questa volta non già di conquiste territoriali ma di acquisto delle proprietà degli imprenditori. Il Termidoro arriverà, ma quando?”



Quasi una profezia quella di Alain Minc. Suffragata dal giudizio lapidario di Edouard Balladour, l’ex primo ministro francese: “Gli italiani nella loro follia moralizzatrice stanno abbattendo tutte le loro querce più grandi”.

Difficile date torto a questi personaggi visti i dati, i protagonisti dell’epoca, l’impoverimento di una intera classe dirigente e il passaggio dalla prima alla cosiddetta seconda repubblica italiana con la stagione delle privatizzazioni che, escludendo l’affare Telecom, portò 100 miliardi di euro nella casse dello Stato, non risolvendo affatto il problema del debito pubblico, coinvolgendo in un affare mal riuscito le banche d’affari anglo-americane e sguarnendo l’Italia di settori industriali di prim’ordine, di eccellenza e strategici.

Sulla “svendita” venne pure, in ritardo, un giudizio impietoso della Corte dei Conti nel 2007, alla vigilia della crisi più devastante causata dalla finanza da casinò, non dai debiti sovrani (che arrivarono dopo, a causa dei “buchi” bancari), come con nonchalance ripetono, forse per auto-convincersi, il senatore a vita  Mario Monti e l’enigmatica signora Elsa Fornero.

Nonostante tutto questo, nonostante la fuga dei grandi gruppi imprenditoriali, guidati dai “capitani di sventura” come li chiamava Marco Borsa, verso i più comodi paradisi fiscali; nonostante il disordine istituzionale, la costruzione incerta di un’Europa senza una costituzione e una politica comune; nonostante una globalizzazione scandita secondo i ritmi imposti dalla grande finanza; nonostante l’impoverimento e la crescita delle disuguaglianze l’Italia era ugualmente riuscita a reggere, ad ammortizzare almeno, l’impatto dei cambiamenti.

L’Italia aveva costruito una struttura industriale che si basava su circa 4mila medie aziende internazionalizzate e di grande eccellenza di prodotto, che delineavano quello che economisti come Fulvio Coltorti, Giuseppe Berta, Franco Amatori soprannominarono “quarto capitalismo”, circondato da un arcipelago infinito di piccole e medie aziende legate al territorio, nate nei distretti che aveva individuato, già a fine Ottocento, il maestro di Keynes, Alfred Marshall.

Nei distretti si vedeva il radicamento territoriale, la concorrenza corretta e complementare, un concetto di impresa sociale che si inserisce e caratterizza una comunità, una ricerca di complessiva programmazione democratica che metteva quello sconfinato mondo imprenditoriale a contatto con uno Stato che dovrebbe valorizzare e favorire il suo tessuto produttivo.

Non si è mai compreso perché non sia mai stato favorito questo tessuto sociale ed economico, così creativo e importante, prettamente italiano e di grande eccellenza, non sia mai stato veramente aiutato da una grande struttura bancaria adeguata. E non sia stato protetto da una promozione statale di grande qualità soprattutto sui problemi della burocratizzazione esasperata e di una pressione fiscale senza limiti.

Non si può nascondere che di fronte a questo sviluppo impetuoso della piccola e media azienda italiana, del “quarto capitalismo” nel suo complesso, lo Stato, in tutte le sue forme, abbia mostrato più che una voglia di partnership programmatoria, il volto del sospetto per l’evasione, il “nero”, gli affari pochi puliti. Come se non esistesse la magistratura per tutto questo.

La ribellione che cova oggi nel mondo imprenditoriale, l’instabilità sociale, spesso la ribellione o la rivalsa, sono alla fine frutto di anni di diffidenza vissuta dai piccoli imprenditori sulla loro pelle.

A tutto questo si è aggiunta la pandemia, in uno dei tornanti più impervi della storia, che riserva inesorabili sorprese e ostacoli che vanno affrontati.

Lo sforzo delle imprese italiane di reggere alla crisi finanziaria del 2008 e poi a un’assurda politica di austerità, viene così oggi stroncato da una delle grandi disgrazie mondiali ricorrenti: appunto una devastante pandemia come quella del Covid-19.

Trovare una soluzione a un simile problema non è di certo semplice, ma è quasi annichilente e  prostrante, ma mai impossibile però, come la storia delle nazioni ha sempre dimostrato in passato.

È vero, ci si trova di fronte a problemi di liquidità impressionanti dopo un periodo di lockdown, a problemi sociali drammatici. C’è un’emergenza da affrontare e poi ci sono le scelte da tentare.

Ci sono le ricette facili e sbrigative, compresa l’attesa passiva della catastrofe. Ma c’è pure la forza, in molti casi, o la tendenza a ricostruire e a ricominciare secondo criteri nuovi. L’Italia è un arcipelago di piccole e medie industrie. Vale la pena di sorreggerle, aiutarle e arricchirle secondo criteri nuovi in tutti i settori, dall’organizzazione del lavoro, alla formazione alla qualità e innovazione di prodotto.

C’è un rischio e un pericolo: quello dell’immobilismo e della mancanza di visione, in chiave politica che o perde tempo o ama solo dividersi per contrasti oggi diventati pseudo-ideologici.

A questo punto ritornano in mente le parole di Alain Minc sull’avidità degli stranieri, non sui territori, ma su migliaia di piccole e medie aziende italiane che sono l’indotto strategico per le più grandi imprese europee e in alcuni casi delle imprese di tutto il mondo.

Il calcolo è che ci siano circa 250mila aziende italiane, piccole medie in difficoltà, che tra qualche mese avrebbero convenienza a vendere la loro realtà a quelli per cui già lavorano e forniscono “pezzi” per grandi realizzazioni industriali. Passeremmo così, nel giro di un trentennio circa, dalla “stagione delle privatizzazioni” alla “grande svendita”. È un disastro da evitare a tutti i costi.

A questo punto gli stati generali non ricorderebbero neppure quelli del 1789, ne quelli di Richelieu del 1615, ma quelli del 1302, tenuti dal più catastrofico re dei Capetingi, Filippo IV, detto il “bello”, ma anche il simbolo dell’assolutismo più ignobile.

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