Partiamo da una considerazione di tipo economico e produttivo: Dune, il film di Denis Villeneuve nelle sale, è costato 165 milioni di dollari, La guerra di domani (in streaming su Prime Video) ne è costati 200. Del primo lo spettatore si gode la magnificenza di ogni singolo centesimo, del secondo gli resta l’impressione di un film di trent’anni fa appena restaurato digitalmente. Da qui arriviamo a una questione artistica: i budget stratosferici vanno dati in mano ai registi e non agli algoritmi.



La guerra di domani, diretto da Chris McKay e prodotto da Paramount (che poi ha affidato la distribuzione ad Amazon causa Covid), è infatti uno dei molti esempi di film-algoritmo che popolano la nuova filiera del cinema mondiale: racconta di Dan, un ex-militare e scienziato che si ritrova nel mezzo di una guerra che viene dal futuro, quando dei soldati tornano dal 2050 al 2022 per chiedere ai loro “avi” di aiutarli a sconfiggere la razza aliena che ha distrutto la Terra.



Non è semplicemente il fatto che la sceneggiatura di Zach Dean sia un mix sovrabbondante di elementi di altri film, che a citarli faremmo notte, ma che queste derivazioni e citazioni, questi continui rimandi a qualcosa che è già stato fatto e visto sono talmente incistati nel processo narrativo, nell’evoluzione delle figure e degli eventi da non sembrare un’operazione consapevole, ma figlia di un’intelligenza artificiale, come se i passaggi del racconto fossero indecifrabili linee di codici di programmazione.

McKay ha il solo compito di dare una forma dignitosa a questo prodotto geneticamente modificato, di dare un ritmo e una parvenza di tensione a un prodotto completamente insapore, che fa dell’asportazione di ogni personalità il suo obiettivo per permettere allo spettatore-tipo di ritrovarsi immagini già elaborate, di sfruttare la scia di opere che quei terreni li hanno già battuti spianandogli la strada: cerca di mescolare, in sedicesimi, il titanismo di Zacx Snyder e il militarismo “colorato” di Michael Bay e fino all’ultimo atto quasi riesce nel compito.



Poi, arriva il finale in Russia e qui crolla tutto, anche ogni tipo di beneficio del dubbio che il critico può riservare a un film del genere, perché La guerra di domani diventa il cinema di ieri, quello che nessun revival nostalgico può riesumare perché la mancanza di personalità diventa mancanza di talento: certo, tutto fracassone, retorico, con le frasi gonfie e i mostri presi a cazzotti (ma Will Smith l’ha fatto 25 anni prima), con la finta ironia a nascondere il vero imbarazzo, con gli effetti speciali che provano a supplire al senso nullo dell’azione, ma anche tutto pretestuoso, casuale, appiccicato alla meno peggio, sperando in un pubblico di bocca buonissima.

Qualcuno in Paramount sperava forse nel carisma pacioso di Chris Pratt, ma qui l’attore è sotto ogni soglia di decenza e i suoi comprimari, gestiti come un cast d’altri tempi, ossia belli eroici e “brutti” simpatici, non lo aiutano. I 200 milioni di budget (rientrati già solo con l’offerta di Amazon, che li ha sborsati per distribuirlo) sembrano risucchiati in un buco nero, nel cratere in cui covano le idre bianche probabilmente: ai solutori più che abili il compito di scoprire come siano stati spesi.

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