Un esercito di quasi 600mila soldati, con 400mila riservisti, molto ben armato ma che ha bisogno dei soldi americani per sostenere la produzione. E che riceve dagli USA aerei e sostegno dalle portaerei. La forza dell’IDF, spiega Vincenzo Giallongo, generale dei carabinieri in congedo con all’attivo missioni in Iraq, Albania, Kuwait e Kosovo, sta nella gioventù, nella preparazione e soprattutto nelle motivazioni dei soldati. Sanno fin da piccoli di vivere in un Paese circondato da nemici e vengono sottoposti a una leva di 32 mesi per gli uomini e di 24 per le donne, alla quale seguono altri periodi di richiamo per l’addestramento. I continui attacchi missilistici, però, stanno mettendo a dura prova le difese antiaeree israeliane, anche perché il nemico utilizza droni e missili di nuova generazione, sulla base di una produzione che l’Iran ha destinato anche alla Russia, sostenendo il suo sforzo bellico in Ucraina.



Come funziona l’esercito israeliano?

È un esercito per certi versi anche superiore a quello americano. I soldati sono molto preparati. È composto da 176mila uomini fissi, ma comprende anche oltre 400mila riservisti, che quando iniziano il servizio militare di leva devono sottoporsi a una ferma di 32 mesi gli uomini e 24 mesi le donne. Gli unici esclusi sono gli ultraortodossi, anche se adesso c’è una legge, ancora contestata, che li obbliga a essere reclutati. Si tratta di soldati estremamente motivati: molti si sentono il popolo prescelto da Dio e comunque sono continuamente in guerra, fin da ragazzi sanno che sono circondati da nemici. Anche chi ha il doppio passaporto e vive all’estero viene richiamato regolarmente nell’esercito. Succede anche a giovani italiani. Hanno una motivazione che neanche i militari americani hanno: se questi ultimi vanno in Afghanistan lo fanno per soldi; invece, gli israeliani combattono perché è necessario per la sopravvivenza della nazione.



Non si limitano però solo all’addestramento iniziale. Come funziona il sistema?

I richiami sono periodici in base al ruolo che svolgono: fino ai 40 anni per i soldati semplici, 45 per gli ufficiali, 49 per i tecnici specializzati. Con zero renitenza alla leva. Gli armamenti di cui dispongono sono di ultima generazione, razzi, missili balistici che raggiungono fino a 5mila chilometri di distanza, mentre come aerei hanno F15, F16, F35, gli Awacs per prevenire gli attacchi. A tutto questo si aggiunge un’intelligence preparata, quella che ha consentito all’IDF di mettere a segno le operazioni mirate di queste ultime settimane. Gli israeliani hanno anche una marina che ha corvette armate, in grado di trasportare elicotteri, ma è la loro arma meno forte.



D’altra parte, Israele ha anche un’industria bellica molto sviluppata.

Il più grande mercato al mondo di armi è a Tel Aviv. Hanno carri armati che costruiscono le loro imprese, come il Mercava, e mezzi corazzati. Da questo punto di vista non sono secondi a nessuno.

Ma perché hanno bisogno dell’aiuto americano? L’ultima grande tranche in arrivo da Washington ammontava a 20 miliardi di dollari, come si spiega?

Hanno bisogno di soldi per produrre gli armamenti; per quanto riguarda la parte terrestre li realizzano loro. Si sono costruiti anche la difesa antiaerea. Gli americani forniscono aerei e soldi e, soprattutto, riforniscono la Marina, che è il punto dolente israeliano: quando c’è odore di guerra, Washington manda le portaerei, perché gli israeliani non le hanno.

Un rapporto britannico dice che Israele rischia una carenza di missili intercettori e che gli americani hanno promesso di inviare il THAAD, un sistema missilistico ad alta quota. Israele ha problemi di difesa aerea? Anche l’Iron Dome potrebbe non bastare?

C’è prudenza. In una guerra così lunga, la produzione bellica spesso non riesce a tenere il passo e gli israeliani hanno consumato moltissimo. L’Iron Dome non è altro che un sistema di missili che colpiscono altri missili che stanno attaccando. Se consideriamo che contro Israele ne arrivano centinaia al giorno, è chiaro che devono ricostruire una riserva. Ma il problema più serio è che l’Iran, sotto il profilo dei droni e dei missili, è ben preparato e innova continuamente. Gli USA devono dare una mano per fronteggiare i nuovi modelli di missili in arrivo, ma possono capire come farlo solo dopo aver subito un primo attacco. Si sono resi conto che l’Iran ha elevato il livello di efficienza di queste armi.

Quindi, quando sentiamo parlare di droni che hanno bucato l’Iron Dome è perché sono di nuova concezione?

Sì. L’Iran si è attivato da tempo perché doveva supportare l’amica Russia. Già da due o tre anni produce droni efficaci, che Mosca usa in Ucraina. Gli israeliani stanno correndo ai ripari.

I giornali israeliani celebrano sempre i loro caduti in guerra, pubblicando anche le loro foto, uno per uno. In uno degli ultimi necrologi si parlava della morte di quattro diciannovenni. L’esercito è composto soprattutto da giovani?

L’esercito è giovane perché Israele è un Paese di giovani. Le nostre forze armate sono vecchie; loro hanno tanti giovani con una ferma che finisce a 40 anni, mentre per noi questa età è quella di un combattente medio. E i giovani sono quelli che spesso finiscono in prima linea.

Il fatto che sia un esercito di popolo può incidere sull’economia israeliana? A un certo punto Israele potrebbe pensare che sia meglio far tornare i riservisti al loro lavoro per non avere contraccolpi?

I soldi che arrivano dagli americani non vengono utilizzati solo per gli armamenti, ma anche nel sostegno di quelle che sono le aziende primarie, per mantenere il livello di vita come nel pre-guerra. Gli israeliani, inoltre, sono distribuiti in tutto il mondo occidentale e hanno un enorme attaccamento alla loro terra. Non fanno proselitismo, come le altre religioni, ma fanno quadrato e si sentono molto uniti. Per questo chi sta all’estero manda molti sussidi al suo Paese. Ci sono giovani che vanno due, tre, quattro anni a lavorare nei kibbutz perché devono supportare il loro Paese. Un meccanismo che li rende molto coesi.

La necessità di difendersi dal nemico è anche l’elemento che tiene unito il Paese?

Certo. Si sentono sempre in guerra, sono sempre molto motivati; tutto questo fa sì che abbiano questo collante che li unisce.

La struttura dell’esercito fino a quando può permettere loro di continuare la guerra?

Israele ha buone scorte di armamenti, ma sicuramente la guerra avrà un termine e il governo lo sa. Tanto è vero che non ha aperto tre fronti, ma ne prende in considerazione uno per volta: ha messo in croce Hamas, ora lo fa con Hezbollah, poi lo farà con l’Iran. Non vuole correre il rischio di aprire contemporaneamente tre fronti.

Netanyahu avrebbe promesso a Biden che non attaccherà siti nucleari e petroliferi dell’Iran. Ma secondo i media americani l’attacco avverrà comunque prima delle elezioni presidenziali del 5 novembre. Cosa possiamo immaginare che succeda?

Se ha promesso qualcosa a Biden stavolta lo manterrà, ma il suo sarà un attacco di risposta, interlocutorio; il vero attacco all’Iran, ai siti nucleari per esempio, ci sarà quando avrà terminato con il Libano. Intanto aspetta di vedere chi vincerà le elezioni: se sarà Trump avrà mano libera. Teniamo conto che Netanyahu ha la necessità di andare avanti nella guerra il più possibile perché lo aspettano processi e la caduta del governo. Rischia molto se dovesse terminare la guerra. Ma deve procedere per step.

L’esercito israeliano ha un ruolo politico? In fondo molti dei capi politici di Israele sono stati generali dell’IDF.

L’esercito è una fucina di futuri premier. È un Paese in guerra, è chiaro che è preferibile fidarsi di un ufficiale che conosce il nemico. Quella dell’esercito è una strada privilegiata per reperire la classe dirigente, una sorta di scuola di eccellenza.

(Paolo Rossetti)

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI