«Anche noi abbiamo fatto il nostro dovere» sbotta il solitario veterano Hector Negron davanti al televisore del proprio appartamento newyorkese, mentre sul piccolo schermo passano le immagini (in lingua originale) dell’eroico comandante tutto d’un pezzo John Wayne impegnato, con i suoi paracadutisti, nella conquista di una cittadina dell’entroterra francese ne Il giorno più lungo (The Longest Day, 1962), celebre kolossal bellico sul D-Day, il giorno dello sbarco in Normandia (6 giugno 1944).
Non c’è che dire. Il 51enne regista Spike Lee – è da lui – gioca a carte scoperte fin dall’inizio. La sfida è duplice, già dalle prime inquadrature: una, evidente, è cinematografica, vale a dire fare i conti, da regista, con la tradizione del genere bellico americano che non ha mai dato il giusto spazio all’apporto fornito, in termini di vite umane, dai soldati afro-americani; l’altra, altrettanto chiara e caratterizzante gran parte della sua prima produzione, è la battaglia culturale per il pieno riconoscimento che una questione razziale ancora esiste e che il cinema se ne fa continuatore (si veda la polemica con Clint Eastwood per l’assenza di uomini di colore in divisa nelle sue recenti pellicole Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima).
Se si premette questa prima, potente, programmatica preoccupazione autoriale prima ancora che di messa in scena, allora si possono spiegare tutte le debolezze che quest’opera mostra in quasi ogni sua sequenza. Intendiamoci: Spike Lee è certamente in buona fede nello spendersi per questa causa, se egli ne ravvede la necessità, che sia di carattere personale o sia di carattere più generale. A noi però tocca di dare conto di un film di oltre 150 minuti che, nonostante le buone intenzioni, soffre di una sorprendente mancanza di compattezza narrativa, disperdendosi in personaggi che non riescono a emergere dalla “macchietta” o dalla nota di “colore” locale, dove il regista è palesemente alle prese con un “discorso” da mettere in immagini più che con una preziosa “storia” da tramandare, raccontandola per vie traverse (l’episodio della strage nazista di Sant’Anna di Stazzema).
Ecco quindi che, fatte le dovute proporzioni, sullo schermo si materializza quella stessa propaganda che egli mette più di una volta in evidenza, con chiari intenti accusatori, nella sua pellicola. A questo proposito va detto come ogni polemica storica circa la ricostruzione (che il film stesso dichiara essere fittizia già dalla didascalia iniziale) sulle cause e sulla natura del barbaro eccidio di 560 civili inermi, oltre che pretestuosa, passa davvero in secondo piano vista la mancanza di controllo del ricco materiale a disposizione (come dimostra la “gestione” narrativa dei personaggi del piccolo Angelo e del soldato Samuel Train, sospetto confermato da un finale che ha dell’imbarazzante, se pensiamo che si tratta dello stesso regista che ha firmato La 25ª ora).
Sui titoli di coda del film, in mezzo a tutte quelle croci, una domanda è d’obbligo: a dieci anni esatti dal ritorno sul grande schermo del fascino della divisa militare – Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998, Steven Spielberg) e La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998, Terrence Malick) – è forse possibile mostrare e dire ancora qualcosa di nuovo sulla guerra? Per Spike Lee, spesosi con generosità (e verbosità), sembrava decisamente di sì. Davvero un gran peccato allora che stavolta il “miracolo” (del cinema) non si sia manifestato.
(Leonardo Locatelli)
Miracolo a Sant’Anna (Miracle at St. Anna)
Regia: Spike Lee Con: Chiara Francini – Derek Luke – Laz Alonso – Luigi Lo Cascio – Matteo Sciabordi – Michael Ealy – Omar Benson Miller – Omero Antonutti – Pierfrancesco Favino – Sergio Albelli – Valentina Cervi Anno: 2008
Adattato dall’omonimo romanzo di James McBride (2001) e ambientato nelle Alpi Apuane, teatro dell’offensiva autunnale anglo-americana del 1944 contro la linea Gotica, il racconto di pochi giorni della vita di quattro soldati afro-americani della 92ª Divisione dell’esercito statunitense (i cosiddetti “Buffalo Soldiers”) lasciati soli dietro le linee nemiche da superiori tanto razzisti quanto inetti a vedersela, nell’ordine, con le forze della Wehrmacht, un piccolo testimone di una crudele strage nazista, la popolazione locale e gli scontri interni tra partigiani. Dopo averne sfiorato gli orrori nelle pieghe della trama del riuscito Inside Man (2006), Spike Lee affronta per la prima volta in carriera la Seconda guerra mondiale con un’opera debole e sfilacciata, irrisolta tra uno stile visivo alla Spielberg e toni alla Benigni, che si avvicina – in senso contrario alle aspettative – a quella propaganda che vorrebbe accusare, e lascia emergere, qua e là, il pregiudizio di un pregiudizio. (L.L.)
Guarda il trailer di “Miracolo a Sant’Anna”