Sembra ormai assodato che sia nato il 30 novembre 1943: festeggia dunque 65 anni Terrence Malick, lo schivo regista-filosofo che parla solo attraverso le sue pellicole, il visionario più invisibile del pianeta, avendo al suo attivo solamente un cortometraggio (Lanton Mills, 1969) e quattro film, La rabbia giovane (Badlands, 1973), I giorni del cielo (Days of Heaven, 1978), La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) e The New World – Il nuovo mondo (The New World, 2005), in 40 anni di carriera.
Un altro, attesissimo dagli appassionati, è dato in arrivo per il 2009: è The Tree of Life, L’albero della vita, che vede tra i protagonisti l’amico Sean Penn e Brad Pitt. Per dirla con l’attore Nick Nolte, «Terry è il perfetto esempio di una persona che coltiva seriamente la propria vocazione, come qualcosa di prezioso. È assolutamente ovvio che non si guadagna da vivere coi film». Da parte nostra, il primo sentimento di fronte a questa “vocazione” è di stupita gratitudine per quanto ci ha finora regalato, mirabili brani di cinema segnati da sincera attenzione e potente passione per l’essere umano in quanto tale.
La sottile linea rossa – Prendiamo La sottile linea rossa – che nel 1998 interruppe il silenzio quasi ventennale dell’autore –, vale a dire il drammatico racconto della conquista dell’isola di Guadalcanal nel novembre 1942 da parte dell’esercito statunitense, un episodio fondamentale della guerra sul fronte del Pacifico. Fin dalle prime immagini finisce per debordare dalla semplice etichetta di “war movie” per trasformarsi in una grandiosa riflessione sull’uomo, sulla sua natura e sul suo essere nel mondo. Quel senso o brandello di senso che consente di giungere al termine della visione di Salvate il soldato Ryan (Saving Private Ryan, 1998, di Steven Spielberg), l’altro grande film di argomento bellico di quella stagione, potendo ancora trovare una “giusta causa” di fronte al massacro, in Malick non esiste. O meglio, qui se ne è alla ricerca.
E l’esito, più che risposte vere e proprie, sono tentativi di “con-cludere” qualcosa, di racchiudere in un ordine – magari anche solo temporaneo, punto di partenza per una successiva ricerca – quello che ai soldati (e allo spettatore) è dato di vedere. Il film, anche per questo motivo, riesce inclassificabile, sfuggendo a qualsiasi modello, anche narrativo, non appena si cerca di chiuderlo dentro uno schema predefinito, per diventare la descrizione di un mondo affollato dall’umanità più diversa che acquista, con il passare dei minuti, un respiro profondissimo e alla fine colpisce in maniera sorprendentemente più incisiva della pur potente e giustamente celebre sequenza iniziale di Salvate il soldato Ryan dedicata allo sbarco a Omaha Beach.
The new world – Nello splendido e per certi versi radicale The New World – Il nuovo mondo, pensato già a partire dagli anni Settanta e uscito nelle sale statunitensi la domenica di Natale del 2005, il sempre più sorprendente Malick riprende e rilancia (tentando in qualche misura delle risposte) le domande poste nel film precedente: davvero difficile imbattersi in un creatore di immagini così impegnato a farsi interrogare da ciò che egli stesso mette sullo schermo, per quello che è innanzitutto un lavoro – quindi un’espressione di sé, prima ancora e più che un ruolo o una funzione –, dopo lunghi ed evidenti ripensamenti sia in fase di ripresa che in quella di montaggio.
Per la storia che mostra e per la passione che la investe, quest’opera rappresenta un deciso e coraggioso superamento de La sottile linea rossa, che appare forse solo formalmente superiore, quanto a struttura del linguaggio cinematografico e sua leggibilità. Sorprende scoprire come in questa pellicola la dinamica della storia d’amore dispiegata davanti agli occhi dello spettatore – quella tra il soldato inglese John Smith e la principessa indigena Pocahontas (anche se, durante l’intero film, questo nome non viene mai usato) nella Virginia del 1607 – abbia a che fare con quella altrettanto semplice messa in moto in ogni persona durante il processo della conoscenza, quando cioè ci si imbatte per la prima volta in ciò che ci circonda.
Motivo per il quale resta assolutamente intatta ad ogni visione l’emozione per gli ultimi quindici minuti dell’opera, coincidenti con il viaggio in Inghilterra della protagonista, dove possiamo vedere a confronto lo sguardo di Rebecca (come è ormai stata battezzata) e quello di suo zio Opechancanough. Se il secondo attraversa gli spazi inglesi – si veda soprattutto la sequenza del giardino, con le sue rigide geometrie – con lo stesso sbigottimento, spaesamento degli astronauti di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968, di Stanley Kubrick) davanti al monolite, ecco invece la prima correre e giocare completamente a suo agio con suo figlio Thomas in un ambiente quasi simile.
Di lì a poco – dopo un certo particolare evento – la vediamo sorridere e saltare, ancora in un giardino, anche se meno geometrico dei due precedenti, a piedi nudi ma pur stretta in abiti occidentali del medesimo genere di quelli indossati e portati inizialmente a fatica in Virginia. Una provocante domanda sorge davanti a queste sequenze: e se il nuovo mondo non fosse né l’America vista da John Smith né l’Inghilterra vista da Opechancanough, ma Rebecca stessa e il suo sguardo sull’intera realtà? Da ultimo quest’opera suggerisce, come appena accennato e non solo per l’uso combinato di sequenze pressoché mute e musica classica, una somiglianza con una pietra miliare della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio, e pare proprio poter competere con le altezze che quel film raggiunge: quelle domande, quel “mistero” – segnalato dal celebre monolite, Dio o entità aliena che fosse – che in Kubrick sono suggeriti in maniera più ambigua anche se di intatta suggestione visiva ed emozionale, in Malick emergono, pur in un montaggio che ricorda la rarefazione e l’astrazione di 2001, dentro la concretezza fisica di un rapporto io-tu, cioè come naturalmente sperimentabile da chiunque. Con esiti “drammatici” e di coinvolgimento da parte dello spettatore ben diversi. Anche perché una delle frasi di Smith («Quando sono con te, so una cosa che dimentico quando sono via») resta applicabile all’esperienza affettiva (e quindi di conoscenza, di crescita) di ciascuno, e non limitata al solo pur privilegiato ambito del rapporto di coppia, cioè quella condizione nella e per la quale siamo spinti ad ammettere che io sono più io quando sono qui con te; che io conosco più cose di me, capisco più me stesso, chi sono io, stando davanti a te.
Qui non abbiamo più un monolite a segnare l’avanzamento della conoscenza umana, ma una ragazza di quindici anni che rappresenta la purezza originale, una “verginità” innanzitutto come sguardo sulla realtà circostante.
La possibilità quindi di un “nuovo inizio” – come quello misteriosamente mendicato dal cinico, pragmatico sergente Welsh, “pezzo di ghiaccio” per sua stessa ammissione, lasciando l’isola di Guadalcanal al termine de La sottile linea rossa («Se non ti incontrerò mai in questa vita, almeno che io senta la tua mancanza. Uno sguardo dei tuoi occhi e la mia vita sarà tua» sono le sue ultime parole, ma si pensi anche al rapporto che lega il soldato Bell alla moglie lontana: «Perché dovrei aver paura di morire? Io appartengo a te. Se me ne vado prima di te, ti aspetterò lì, dall’altra parte delle acque oscure. Non mi abbandonare adesso»; «L’amore. Da dove proviene? Chi ha acceso questa fiamma in noi? Nessuna guerra può spegnerla, conquistarla. Ero prigioniero, mi hai liberato») – e di una “modalità di guardare” più piena e definitiva – in qualche misura riaffermata dal soldato Witt direttamente dall’oltretomba e con la quale si chiude lo stesso film («Oh, anima mia, fa che io sia in te adesso. Guarda attraverso i miei occhi. Guarda le cose che hai creato. Tutto risplende»).
(Leonardo Locatelli)