Il 10 maggio 1968, a poco più di un mese dalle prime proiezioni nordamericane di New York, Washington e Los Angeles, faceva il suo debutto europeo a Londra il «greatest SF-Film ever made», 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), il più celebre capolavoro del più grande cineasta del XX secolo, l’opera che consacrò definitivamente l’allora quarantenne Stanley Kubrick, regista statunitense nato nel quartiere del Bronx a New York il 26 luglio 1928 da una famiglia austriaca di origine ebrea. Un grande appassionato di fotografia (la sua prima professione), scacchi e musica jazz (era batterista), nonché un accanito cinefilo: «Uno dei motivi principali che mi spingeva a vedere otto volte alla settimana i soliti film hollywoodiani era che molti di loro erano davvero brutti […]. Senza neppure iniziare a comprendere quali fossero i problemi legati alla realizzazione di un film, cominciai a pensare che non avrei potuto fare un film peggiore di quelli che vedevo. Anzi, sentii che avrei potuto farli molto meglio». Questo, dalla voce del diretto protagonista, il punto d’inizio, quasi banale nella sua spontaneità, di una carriera ormai legata indissolubilmente alla storia dell’arte del Novecento, quella di un genio visionario accostato da alcuni a Leonardo da Vinci e che definì il proprio cinema (3 cortometraggi e 13 pellicole in 48 anni) come «una riflessione riguardante l’uomo del Ventesimo secolo, gettato su una barca senza timoniere, in un mare sconosciuto».
Odissea nello spazio, quindi, “il viaggio definitivo” (come recitava lo slogan di una delle versioni della locandina originale), vero e proprio “Big Bang” che influenzò i cineasti di un’intera generazione pronti ad esplodere di lì a poco, tra cui Steven Spielberg (cui si deve l’immagine) e James Cameron, che vi si imbatté all’età di 15 anni: «Non appena lo vidi, seppi che volevo diventare regista. Mi colpì a una quantità di livelli diversi. Non riuscivo a capire come avesse fatto tutta quella roba, dovevo imparare e basta». Quasi le stesse parole usate dal regista francese François Truffaut per un’altro spartiacque della storia del cinema, Quarto potere («Appartengo a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film avendo visto Citizen Kane»), “il film più bello del mondo” scritto, diretto ed interpretato dal geniale venticinquenne Orson Welles, uscito nelle sale statunitensi nel 1941 e nell’immediato dopoguerra in Europa, che lo stesso Kubrick omaggiò con una citazione nella sequenza conclusiva della sua space opera. Se l’esordio dietro alla macchina da presa di Welles sta alla base dell’idea di cinema moderno come visione “autoriale” sulla realtà e sul mondo, l’ottavo lungometraggio di Kubrick è un formidabile compendio della ricchezza espressiva dell’arte cinematografica (e delle sue possibilità) che, come è stato scritto, restituì agli spettatori di fine anni Sessanta, nel buio dello spazio, quindi sul buio dello schermo, il piacere del “farsi” del cinema, quel senso di “stupefazione” già rinvenibile nello sbigottito pubblico parigino del Cinematografo dei fratelli Lumière. E che qui vale la pena di riproporre nella testimonianza di Georges Méliès, considerato il padre del cinema narrativo e l’inventore di tutti i trucchi/effetti speciali di tipo meccanico e ottico scenico: «Io e gli altri invitati ci trovavamo di fronte a un piccolo schermo, simile a quelli che usavamo per le proiezioni con la lanterna Molteni, e dopo qualche istante comparve una fotografia ferma della piazza Bellecour di Lione. Un po’ stupito, mi girai verso il mio vicino per dirgli: “E ci hanno scomodati solo per farci vedere delle proiezioni? È da più di dieci anni che ne faccio”. Non avevo neanche finito di parlare, quando vidi avanzare verso di noi un cavallo che trainava un furgone, seguito da altre carrozze, poi da passanti. Insomma, tutta l’animazione di una strada. Di fronte a quello spettacolo restammo ammutoliti, a bocca aperta, meravigliati oltre ogni dire».
Pensato a partire dal febbraio 1964, sceneggiato con l’aiuto dello scrittore di fantascienza Arthur Charles Clarke e uscito nelle sale un anno prima dello sbarco sulla Luna, quel 1968 che resta una cifra simbolica del nostro Novecento, riunendo una squadra di 25 addetti, 35 disegnatori e altri 70 tecnici per la realizzazione delle oltre sedicimila fotografie alla base dei 205 fotogrammi di effetti speciali visivi non digitali (!), il film vinse il suo unico premio Oscar proprio per questa categoria: un riconoscimento che venne assegnato direttamente allo stesso Kubrick, per quella che sarebbe rimasta l’unica statuetta nominale ricevuta dall’Academy lungo l’arco di tutta la sua carriera. Un dettaglio affatto trascurabile per un’opera che nelle intenzioni dell’autore, stando a una sua intervista del 1969, cercò di mostrare come «il cinema opera a un livello più vicino a quello della musica o della pittura che a quello della scrittura, i film offrono l’opportunità di veicolare concetti complessi e idee astratte senza servirsi in modo tradizionale della parola. […] 2001 è un’esperienza sostanzialmente visiva, che rinuncia alla verbalizzazione intellettuale e raggiunge il subconscio dello spettatore in modo essenzialmente poetico e filosofico. Il film diventa così un’esperienza soggettiva che colpisce lo spettatore a un livello di coscienza interiore, come la musica e la pittura. […] Mi è sempre sembrato che un’ambiguità realmente artistica, sincera – se possiamo usare una frase tanto paradossale – sia la forma di espressione più perfetta».
È evidente come la questione qui accennata riguardi ben più che il solo, famoso monolite e il suo effettivo significato (su cui si accesero fin da subito dibattiti e tavole rotonde), anche se risulta interessante al proposito sentire ancora la voce del regista, il quale pure affermava di non credere in nessuna delle religioni monoteistiche terrestri: «La MGM ancora non lo sa, ma hanno appena pagato il conto per il primo film religioso da sei milioni di dollari»; «Il concetto di Dio sta al cuore di 2001, ma non quello delle immagini tradizionali e antropomorfiche di Dio»; «Si discuteva sui mezzi per tradurre fotograficamente una creatura extraterrestre in modo che fosse sconvolgente come lo sarebbe stata “realmente”. Presto fu chiaro che non si può immaginare l’inimmaginabile. Il massimo che si può fare è cercare di rappresentarlo in qualche modo artistico che comunichi qualcuna delle sue qualità». Non solo in forza di queste testimonianze, ancora oggi 2001: Odissea nello spazio colpisce per una sorta di sguardo “altro” rispetto a tanto cinema di allora ma anche contemporaneo, che si percepisce come ultimo, definitivo, assoluto (nelle intenzioni e nella realizzazione), aprendosi il film con una sezione intitolata “L’alba dell’uomo”, giungendo alla conclusione, nell’arco di 140 minuti, con il capitolo “Giove e oltre l’infinito”, e toccando temi fondamentali con una sensibilità e ricchezza mai più raggiunte, nemmeno – quindici anni più tardi – dallo struggimento per le «lacrime nella pioggia» dei replicanti di Ridley Scott e del suo Blade Runner (1982). La sua profusione visiva è paragonabile solo alle opere più suggestive (e non scevre da certo lirismo ermetico) del russo Andrej Tarkovskij, mentre, per restare in ambito statunitense, chi oggi potrebbe reggere il paragone con la totalità di sguardo kubrickiana è forse l’altrettanto schivo e identicamente irraggiungibile Terrence Malick, i cui curriculum recente e status di regista-filosofo gli consentono di poter raccogliere idealmente, sebbene secondo una sua propria straordinaria sensibilità, il testimone del famoso connazionale, potendo godere ancora vivente, come già capitò a quest’ultimo, di un’aura quasi leggendaria.
A parere del nostro Francesco Rosi, recente Orso d’oro alla carriera alla Berlinale 2008, in una dichiarazione rilasciata all’indomani della scomparsa del regista, avvenuta domenica 7 marzo 1999, mentre stava chiudendo la post-produzione di Eyes Wide Shut (1999), Stanley Kubrick «è stato il più grande creatore cinematografico di questo tempo. Da parte mia ho sempre pensato, vedendo i suoi film, che recepivo e capivo di più la realtà attraverso una sua pellicola che non attraverso la realtà stessa». Resta comunque un dato di fatto: ci sembra di avvertire certamente più verità, grazia e bellezza nella Atomic Pen della Parker che, sfuggita all’assonnato dottor Floyd, fluttua nel corridoio del Pan-Am-Shuttle Orion o in una hostess che, nell’atto di portare il pranzo ai membri dell’equipaggio dell’Aries B, rovescia di 180 gradi in tutta naturalezza la propria camminata sulle note de Sul bel Danubio blu di Johann Strass figlio che non nei balletti aerei in stile kung fu di Morpheus, Trinity, Neo e dell’agente Smith o nelle sequenze generate dalla “Bullet-Time Photography” ideata da John Gaeta (dodicimila fotogrammi al secondo rielaborati poi al computer), ovvero la cifra stilistica su cui poggia quasi integralmente Matrix (The Matrix, 1999, Larry e Andy Wachowski), un caso esemplare di genere fantascientifico dal clamoroso successo planetario al botteghino nel recente passato. È proprio vero, come è stato scritto, che «[q]uando paghiamo per vedere un film di Kubrick, quelli che compriamo sono i suoi occhi. La sua comprensione dell’immagine cinematografica, il suo talento per la composizione dell’inquadratura, per il modo in cui muove la camera, per la prospettiva dettata da un particolare obbiettivo […]. I suoi film sono una galleria di immagini indelebili che sopravviveranno fintanto che esisterà il cinema» (John Baxter). E questo nella assoluta consapevolezza che «un film è il riflesso dell’intera cultura dell’uomo che lo fa; la sua educazione, la sua conoscenza degli uomini, il respiro più o meno ampio della sua comprensione, tutto questo informa il film» (Orson Welles). Una sorprendente possibilità di incontro che ci aspettava (e ancora ci aspetta) nell’Odissea di Kubrick così come, fortunatamente, nello sguardo e nel cinema di altri “autori”, nostri contemporanei e non.
(Leonardo Locatelli)