Svezia, inizio Novecento. Una villa di campagna, interno, notte. Gli ormai maturi David e Maria, ex amanti, lui medico, lei sposata ad un uomo facoltoso, si trovano di fronte a uno specchio (che è poi l’obiettivo della macchina da presa: sono infatti rivolti verso noi spettatori) e parlano tra loro, con il primissimo piano del volto della donna, illuminato da una candela, ad occupare quasi interamente lo schermo:

«Guardati allo specchio. Sei bella. Forse sei anche più bella di allora. Però sei molto cambiata. Vorrei che lo vedessi anche tu. Gli occhi hanno sguardi sfuggenti. Un tempo guardavi tutti apertamente. Senza crearti una maschera. La tua bocca ha assunto un’espressione insoddisfatta. Prima era così dolce. Il tuo viso è pallido, la pelle incolore. Sei costretta a truccarti. La tua bella fronte ampia e spaziosa ha delle rughe su ogni sopracciglio. Con questa luce non si vedono, ma risaltano chiare di giorno. Lo sai da dove ti vengono? Dalla tua indifferenza. La curva che va dall’orecchio alla punta del mento non è nitida come un tempo. Significa che sei superficiale. Lì, alla radice del naso, perché c’è tanto sarcasmo adesso? Lo vedi? C’è troppo sarcasmo. Troppo scherno. Sotto i tuoi occhi inquieti mille rughe impietose di noia e di impazienza»
«Davvero vedi questo sul mio viso?»
«No, le vedo ogni volta che mi baci»
«E ogni volta che rispondi ai miei baci io so dove le vedi»
«Sì, su di te»
«No, le vedi in te stesso. Perché noi siamo uguali»
«Anche io sarei egocentrico? Cinico? Indifferente?»
«I tuoi discorsi mi hanno quasi sempre annoiato»
«Pensi che non ci siano attenuanti per gente come noi?»
«Non ho bisogno di essere perdonata».

Riemerge così dalla sterminata galleria della storia del cinema una delle sue più nitide e feroci requisitorie – nella quale ci sia mai capitato di imbatterci – su quello che è ad ogni buon conto il suo primo e più importante “effetto speciale”, il volto umano (e il mistero che vi si nasconde). Come ha infatti affermato l’autore di questa sequenza, «[s]ono cresciuto con il cinema muto e, sembra banale a dirsi, ma il muto stava per diventare un’arte, perché l’arte cinematografica faceva vedere la più straordinaria scena di teatro: il volto umano… un volto, un ombra sullo schermo, che all’improvviso si volta e ti guarda… È la cosa più importante dell’arte del cinema».

Il settimanale Time nel luglio 2005 l’aveva definito «il più grande cineasta mondiale vivente»: al momento della sua scomparsa, il 30 luglio dello scorso anno (poche ore prima di Michelangelo Antonioni), questa era la reputazione a livello internazionale del regista svedese Ingmar Bergman che, nato a Uppsala il 14 luglio 1918, avrebbe compiuto novant’anni lunedì prossimo. Un maestro che ci piace ricordare per le lancinanti visioni talora tanto drammaticamente severe quanto radicalmente “umane”, ma di un’umanità talmente impegnata con se stessa e con la “vitalità” delle proprie domande da non temere le (possibili) estreme conseguenze di una riflessione così serrata e apparentemente solitaria. In famiglia – il padre Erik era un pastore luterano mentre la madre Karin Akerblom discendeva da un’antica famiglia olandese – il giovane Ingmar riceve un’educazione austera, improntata a una certa mentalità protestante secondo cui l’uomo sarebbe intrinsecamente corrotto e Dio un giudice inaccessibile. Pur sottraendosi ad una esperienza religiosa così opprimente con l’approdo a un “ateismo cristiano” molto personale («Non appartengo ad alcuna confessione. Mi procuro da solo i miei angeli e i miei demoni»), il suo animo resterà segnato dalla mentalità paterna: le “cicatrici” di questo dissidio interiore sono ben visibili in tanta parte della sua cinematografia, percorsa da antinomie quali sfiducia/fiducia (nei confronti della natura umana e più in generale dell’esistenza) e silenzio/parola (nel rapporto fra l’uomo e il trascendente).

Ed ecco allora la più famosa partita a scacchi del grande schermo, quella descritta ne Il settimo sigillo (Det sjunde inseglet, 1956) tra il cavaliere crociato Antonius Block (Max von Sydow) e la Morte in persona (Bengt Ekerot), presentatasi per prenderlo con sé al momento del suo rientro in Svezia dalla Terrasanta. Sfida che si protrae nell’arco dell’ora e mezza dell’opera (Premio speciale della giuria al Festival di Cannes 1957) e resa ancor più vivida dalle brucianti domande del tormentato crociato. Come bene esprime la confessione che, all’interno di una sperduta chiesa di campagna, egli è convinto di rendere da dietro una grata a un religioso incappucciato che si rivelerà invece essere – atroce quanto beffardo parallelismo – la Morte:

«Ma perché, perché non è possibile cogliere Dio coi propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse, preghiere sussurrate, incomprensibili miracoli? Perché io dovrei avere fede nella fede degli altri? Che cosa sarà di coloro i quali non sono capaci né vogliono avere fede? Perché non posso uccidere Dio in me stesso? Perché continua a vivere in me sia pure in modo vergognoso e umiliante anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto egli continua a essere uno struggente richiamo di cui non riesco a liberarmi? Mi ascolti?»
«Certo»
«Io vorrei sapere, senza fede, senza ipotesi, voglio la certezza, voglio che Iddio mi tenda la mano e scopra il suo volto nascosto e voglio che mi parli»
«Il suo silenzio non ti parla?»
«Lo chiamo e lo invoco e se egli non risponde io penso che non esiste»
«Forse è così, forse non esiste»
«Ma allora la vita non è che un vuoto senza fine! Nessuno può vivere sapendo di dover morire un giorno come cadendo nel nulla senza speranza!»

Lo stesso regista ha dichiarato che il film «[è] ispirato alle pitture medioevali che mio padre mi portava a vedere da ragazzo. Infatti la mia intenzione, realizzandolo, era di dipingere allo stesso modo del pittore medioevale, con lo stesso oggettivo interesse, con la stessa sensibilità e la stessa gioia. I miei personaggi ridono, piangono, urlano, hanno paura, parlano, rispondono, gioiscono, soffrono, domandano. Domandano. Il loro terrore è la peste, il giorno del giudizio, la stella dell’apocalisse. La nostra paura è di un genere differente, ma le parole sono le stesse. Il nostro dubbio permane». E come dimenticare la sincera e commovente ammissione del proprio male («Il primo dovere di un medico è chiedere perdono») costituita dai novanta minuti del suo film più conosciuto (Orso d’oro al Festival di Berlino 1958), Il posto delle fragole (Smultronstället, 1957), lo spaccato di una giornata fuori dall’ordinario nella vita dell’anziano uomo di scienza Isak Borg (Victor Sjöström), che ha inizio nello studio del professore la cui voce fuori campo solleva fin da subito il sipario su quello che è il contenuto “umano” del film, come il primo erompere di una nuova consapevolezza:

«I rapporti con il prossimo si limitano al pettegolezzo e a una sterile critica del suo comportamento. Questa constatazione mi ha lentamente portato ad isolarmi dalla cosiddetta vita sociale e mondana. Le mie giornate trascorrono in solitudine e senza molte emozioni. Ho dedicato l’esistenza al lavoro e non me ne rammarico affatto. Incominciai per guadagnarmi il pane e finii con una profonda e deferente passione per la scienza. […] Dovrei aggiungere che sono un vecchio cocciuto e pedante. Ciò rende la vita difficile a me e alle persone che mi stanno vicine. Mi chiamo Eberhard Isak Borg e ho 78 anni. Domani nella cattedrale di Lund si celebrerà il mio giubileo professionale».

Sequenza di apertura seguita da quella del sogno che funesta di primissima mattina il sonno del vecchio protagonista (fotografia parzialmente sovresposta, vicoli cittadini deserti, un carro funebre senza alcun vetturino e… i proverbiali orologi senza lancette!) e dal suo viaggio in auto in compagnia della giovane nuora verso il momento che dovrebbe rappresentare il punto più alto della sua vita, perlomeno professionale. Un itinerario ricco di incontri e di incantamenti più o meno piacevoli che rappresenta, a suo modo, un “film della strada” ante litteram e davvero atipico (a partire dall’età del personaggio), qualcosa che, per stranezza e intensità, gli appassionati hanno potuto forse rivedere in tempi molto più recenti nel percorso espiatorio di Alvin Straight in Una storia vera (The Straight Story, 1999) di David Lynch.

E che dire dell’esemplare opera citata in apertura, Sussurri e grida (Viskningar och rop, 1972)? Trentacinquesimo lungometraggio bergmaniano, che in Francia hanno definito «il capolavoro dei capolavori», è una chirurgica vivisezione di quattro anime femminili, una sconvolgente riflessione – attraverso il mistero della sofferenza – sul senso dell’esistenza e sulla “capacità” della felicità qui e ora, anche se, come è stato scritto, «[i]l potere di coinvolgimento, il fascino della limpidità e la pregnanza dei significati è tale da sconcertare i tentativi di analisi. È un film che va visto, rivisto e vissuto. La parola critica di fronte a una simile sovranità espressiva tocca il fondo della sua inadeguatezza e non può se non limitarsi a proporre spunti di lettura di cui ripetute visioni del film ci confermano la parzialità e l’insufficienza». Ad ogni modo, per rigore e lucidità, non tanto un pugno allo stomaco quanto una stilettata al cuore degli spettatori che si consuma in poco meno di novanta minuti, aperti da un incipit dominato da ossessive panoramiche ravvicinate e dettagli sugli orologi che rintoccano le ore nella villa di campagna dove scopriamo si sta spegnendo per un male incurabile la giovane Agnes (Harriet Andersson): «È lunedì mattina presto. Sto soffrendo» sono le prime parole che ci è dato di sentire. La morente è assistita a turno dalle due sorelle, la gelida Karin (Ingrid Thulin) e la superficiale Maria (Liv Ullman), e dalla domestica, l’amorevole e solerte Anna (Kari Sylwan), sulle esperienze delle quali si sofferma il resto del film, ivi compresa una potente sequenza di “resurrezione” quale il solo Carl Theodor Dreyer aveva osato nel suo Ordet (1955). Una sontuosa sinfonia a colori visivamente straordinaria – opera magistrale del fidato operatore Sven Nykvist, premio Oscar 1974 per la migliore fotografia e futuro collaboratore, tra gli altri, di Andrej Tarkovskij e Woody Allen – dove dominano il bianco e il rosso: questo perché, sempre secondo il regista, «dall’infanzia mi sono sempre immaginato l’interno dell’anima come un’umida membrana tinta di rosso». Poco meno di un’ora e mezza di cinema il cui unico commento musicale è rappresentato dalla Sarabanda della Suite n. 5 per violoncello di Bach, che genialmente viene utilizzata per coprire le voci delle due sorelle in occasione del loro fugace riavvicinamento, e dalla Mazurka op. 17 n. 4 di Chopin, che – legata inizialmente alla sequenza dedicata al ricordo della madre – chiude il film nel momento in cui Anna, ormai rimasta sola nella villa e in procinto di abbandonarla per sempre, sfoglia impazientemente le prime pagine del diario di Agnes, a testimonianza di quando ancora la malattia le permetteva di passeggiare nel parco antistante in compagnia delle tre donne:

«I dolori erano spariti. Le persone che amavo di più al mondo erano lì. Potevo sentirle chiacchierare. Sentivo la presenza dei loro corpi, il calore delle loro mani. Volevo aggrapparmi a quel momento e pensai: “Qualunque cosa accada, questa è la felicità. Non posso volere niente di più. Ora posso assaporare la perfezione per qualche attimo. Sento di dover essere grata alla mia vita che mi dà tanto”».

Proprio perché consapevoli della qualità “drammatica” delle sue opere e del serrato confronto con l’esperienza che le hanno forgiate, ci sorprendono solo fino a un certo punto le parole di stima rivolte all’indirizzo del regista svedese da parte di un suo grande collega e amico, Federico Fellini, le cui opere potrebbero sembrare profondamente diverse solo a prima vista: «Con Bergman sento un tipo di fratellanza che è quella che in generale credo provino gli artisti che realizzano pienamente, con episodi a volte felici ed altri infelici, la propria vocazione. Ecco, Bergman mi sembra che incarni in maniera superba il tipo d’artista che fa della sua vita il banco di prova, il nutrimento per realizzare le proprie fantasie. […] [M]i sembra che Bergman riproponga in maniera molto ferma e molto lucida il discorso dell’individuo, cioè un’artista che persegue – senza lasciarsi annebbiare – il filo del discorso della propria interiorità ed è questa forma di individualità a far sì che i film di Bergman e la sua personalità di artista mi sembrino particolarmente esemplari».

Un io e le sue domande, studi di volti e anime incastonati in una carriera febbrile – sessant’anni di attività, quaranta opere cinematografiche e più di novanta regie teatrali, anche se non sempre all’altezza del suo talento – che reggono tuttora alla prova del tempo tra le realizzazioni più compiute e profonde della settima arte.

(Leonardo Locatelli)