«La vera sfida in principio era di evitare di dire in maniera netta: “Qui c’è la storia e qui c’è la realtà”. Volevo sfocare un po’ queste due linee perché la verità, almeno per me, è che le persone percepiscono le cose in modo diverso. Anche nelle storie più fantastiche puoi trovare la realtà. È la mia filosofia di vita, ho provato a rappresentarla». Chi parla è l’oggi cinquantenne (nasce infatti il 25 agosto 1958 a Burbank in California) Timothy William Burton, meglio conosciuto come Tim Burton, a proposito di quello che è stato definito «probabilmente il film più complesso ed intenso della [sua] carriera», sicuramente una delle opere più sorprendenti e commoventi per chi ancora crede nella possibilità di “raccontare” una storia (e che storia!), di lasciarsi stupire da un meraviglioso (e meravigliato) sguardo sulla bellezza dell’“essere qui”, una bellezza che ad un figlio in procinto di diventare padre tocca di riscoprire – con occhi e cuore nuovi – nell’ri-incontro con il proprio: stiamo parlando, come qualcuno avrà sicuramente già capito, del suo relativamente recente Big FishLe storie di una vita incredibile (Big Fish, 2003), adattamento dell’omonimo romanzo di Daniel Wallace. È lo stesso regista a confermarci l’importanza che questa pellicola e lo spirito che la pervade rivestono all’interno della propria filmografia e della vicenda sua personale: «Mio padre era morto da poco e così ho potuto percepire fino in fondo una serie di sentimenti astratti presenti nel tessuto narrativo del racconto. Forse anche solo un paio di anni prima non sarei stato in grado di cogliere pienamente lo spirito di quello che il romanzo poteva offrirmi. Forse non mi avrebbe nemmeno interessato così tanto. Non sono mai stato troppo vicino a mio padre, ma quando è morto era difficile esprimere i sentimenti attraverso le parole. Era qualcosa di inconscio difficile da esplorare attraverso qualsiasi altro strumento che non fosse il cinema. Del resto ogni generazione deve pensare a questo tipo di rapporto. […] A qualsiasi età il rapporto tra padre e figli costituisce una relazione unica e straordinariamente originale. Si tratta di dinamiche molto interessanti da esplorare».

Un rapporto che a dire il vero anima quasi tutta la sua opera, a partire dal film che rappresenta a tutti gli effetti la sua consacrazione come autore, quell’Edward mani di forbice (Edward Scissorhands, 1990), per molti versi rappresenta il suo capolavoro, che porta definitivamente alla ribalta mondiale il gusto goticheggiante – più nel senso di “mistero” che di “orrore” – del suo regista, pellicola segnata da un tono decisamente malinconico eppure sognante, cui contribuisce la bellissima colonna sonora del fidato Danny Elfman e la lunare recitazione del suo attore feticcio Johnny Deep nelle vesti del protagonista, una creatura sviluppata a partire da una macchina pensata per fabbricare dolcissimi biscotti e dotata dal proprio inventore (interpretato da Vincent Price) di un corpo, di un cuore e di una ragione ma che la morte non gli permette di completare con delle mani umane. Cosa che fa inizialmente la sua fortuna all’interno della comunità che lo ha accolto alla stregua di un fenomeno da baraccone ma che è anche motivo del suo perenne “essere altro” rispetto alla stessa. L’amore di una ragazza per cui scolpisce statue di ghiaccio sarà l’unica ricchezza che riporta dalla sua esperienza con il mondo, amore per cui questo personaggio sopravvive nella memoria di una vecchia nonna che racconta la sua storia (e quella della neve) per fare addormentare la propria nipotina. La storia di un uno che è “altro” rispetto al mondo consueto, cioè la storia del suo autore.

Ripercorriamo allora rapidamente le tappe della carriera di questo “splendido” cinquantenne. Tim Burton, dopo aver compiuto i propri studi nel settore dell’animazione, inizia a lavorare come disegnatore alla Disney, casa con la quale realizza i suoi primi due cortometraggi, Vincent (1982) e Frankenweenie (1984), mentre la sua pellicola Pee-wee’s Big Adventure è del 1985: è il principio della carriera di uno dei registi contemporanei tra i più apprezzati per fascino e inventiva, soprattutto a livello narrativo, creatore di un cinema capace di riportare tra il pubblico quel sentimento di stupore, di meraviglia che è connaturato all’arte per eccellenza del XX secolo. A seguire BeetlejuiceSpiritello porcello (Beetle Juice, 1988) con Michael Keaton, che torna un anno dopo nei panni del protagonista in Batman (1989), il blockbuster che a 31 anni lancia il suo autore come regista dai grandi incassi ma che serve soprattutto a garantirgli quella libertà creativa all’interno dell’industria hollywoodiana necessaria per la realizzazione del già citato e certamente più personale Edward mani di forbice, cui succede il secondo capitolo della saga dell’Uomo Pipistrello, Batman – Il ritorno (Batman Returns, 1992). Arriva poi nelle sale il film in “stop motion” Nightmare Before Christmas (Tim Burton’s Nightmare Before Christmas, 1993) – diretto dal collega Henry Selick ma da lui scritto e prodotto – che racconta il desiderio del pur sensibile protagonista Jack Skeletron, re della città di Halloween, di riprodurre la magia del Natale («Ho dentro me qualcosa che spiegare non so» canta con la voce italiana di Renato Zero: come dimenticare la sequenza in cui scopre che cosa è la neve!) arrivando a rapire Babbo Natale per sostituirsi a lui, capendo però, grazie anche all’aiuto dell’amata Sally, che questo tentativo di immaginarsi la Festa per eccellenza “a modo suo” sta solo scompaginando le attese dei bambini di tutto il mondo.

È poi la volta dell’esplicito omaggio ai cosiddetti B-movies – il cinema della sua formazione – rappresentato da Ed Wood (1994), pellicola che vede protagonista “il peggior regista del mondo” e l’ormai rodato Depp nel ruolo del titolo, e Mars Attacks! (1996), ispirata alla omonima serie di figurine del 1962 (nonché, ovviamente, ai gloriosi disaster movies di quel periodo) e dove il mondo viene attaccato da alieni verdi con testa scheletrita e occhi a palla, film in cui ritrova addirittura in due ruoli un entusiasta Jack Nicholson (che già aveva diretto nei panni di Joker in Batman). Del 1999 è invece l’indagine del “razionalista” (si veda la funzione delle lenti disseminate lungo il film) Ichabod Crane, alla ricerca di motivazioni logiche ed scientificamente attendibili, per contrastare le azioni di un Cavaliere senza testa nell’America del 1799, così come descritta ne Il mistero di Sleepy Hollow (Sleepy Hollow). Planet of the Apes Il pianeta delle scimmie (Planet of the Apes, 2001) è invece il remake di un classico del cinema di fantascienza del 1968 da considerarsi come un pedaggio pagato all’industria hollywoodiana, scomparendo letteralmente nel confronto con il successivo e già ricordato Big Fish. Il consueto Johnny Depp che presta il volto a Ichabod Crane diventa Willy Wonka ne La fabbrica di cioccolato (Charlie and the Chocolate Factory, 2005), film solo apparentemente “semplice” che ancora vede insieme padri e figli, mentre la tanto amata “stop motion” torna ne La sposa cadavere (Corpse Bride, 2005) una pellicola accarezzata da dieci anni e che viene presentata a Venezia – dove è accolta da una standing ovation del pubblico e dagli applausi della sala stampa – nell’anno in cui la Mostra del Cinema omaggia il regista con un Leone d’oro alla carriera. Se il presente recentissimo è rappresentato dall’atipico musical Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street (Sweeney Todd: The Demon Barber of Fleet Street, 2007) il futuro sembra riservarci una rivisitazione delle origini con il rifacimento di Frankenweenie ma soprattutto un Alice nel Paese delle meraviglie che stiamo già attendendo con impazienza. E questo spiazzante cinquantenne cosa dice del lavoro fin qui fatto? «Ho capito di avere creato con i miei film un club ideale per gli eterni ragazzi che amano i falliti, la libertà, i marziani e le donne che ti seguono con la valigia in mano come la mia compagna Helena Bonham Carter».

(Leonardo Locatelli)