Si definiva lo «schiavo del cinema» ma in patria lo chiamavano “Tenno”, l’imperatore: questo il soprannome che gli era stato affibbiato nell’ambiente cinematografico giapponese. Stiamo parlando di Akira Kurosawa (scomparso proprio dieci anni fa – il 6 settembre 1998 – per un infarto nella sua casa di Setagaya a Tokyo), uno dei pochissimi giganti che abbiano segnato incontestabilmente con la loro opera il Novecento cinematografico (e non solo), il più “occidentale” dei registi nipponici che soleva indicare John Ford – già ricordato su queste colonne – come suo maestro, il quale a sua volta lo considerava alla stregua di un figlio spirituale. Un cineasta che, parlando di sé e del suo lavoro, ammetteva: «Ho un carattere troppo emotivo, non riesco a guardare la realtà con un occhio freddo. Inoltre sono profondamente legato alle arti plastiche, ho un culto spiccato per la bellezza».

Nato a Tokio il 23 marzo 1910, il futuro regista è il settimo e ultimo figlio di un maestro di arti marziali, discendente di una antica famiglia di samurai. Pittore autodidatta che disdegna la formazione accademica, viene introdotto alla letteratura – russa in primis -, alla pittura e al cinema dal fratello maggiore Heigo che lavora nelle sale cinematografiche come “benshi”, il commentatore di film muti che racconta e dà voce ai personaggi della pellicola muta in proiezione. Grazie al fratello, Kurosawa ha libero accesso alle sale e può così ammirare tra gli anni Venti e Trenta tutti i grandi classici degli autori allora contemporanei: Sergej M. Ejzenštejn, Vsevolod I. Pudovkin, Aleksandr Dovženko, David W. Griffith, John Ford, Erich von Stroheim, Charlie Chaplin, Ernst Lubitsch, Joseph von Sternberg, Cecil B. DeMille, William Wyler, King Vidor, William A. Wellman, Jean Renoir, Abel Gance, Jacques Feyder, René Clair, Luis Buñuel, Fritz Lang, Friedrich W. Murnau, Robert Wiene, Georg W. Pabst, Victor Sjöström, Carl Theodor Dreyer. L’arrivo e il prendere piede anche in Giappone del cinema sonoro porta però alla tragica scomparsa di Heigo che, fallito lo sciopero dei “benshi”, decide di porre fine ai suoi giorni nel 1933 all’età di 27 anni.

Nel 1936 il 26enne Kurosawa, rispondendo ad un annuncio su di un quotidiano, viene selezionato per entrare come assistente negli studi “Photo Chemical Laboratory”, giungendo poi nell’entourage del regista Kajiro Yamamoto («Sarebbe diventato il miglior maestro della mia vita. […] Non finirei mai la lista delle cose che mi ha insegnato Yamamoto»): ha così inizio «la disperata battaglia per diventare regista». Nel 1943 firma la sua prima regia, Sugata Sanshiro, mentre la consacrazione a livello internazionale arriva con il Leone d’oro alla Mostra del Cinema di Venezia – dove la pellicola era stata inviata ad insaputa del regista – e il premio Oscar per il migliore film straniero assegnati a Rashômon (1950), il suo dodicesimo lavoro, un film epocale quanto a linguaggio filmico (i movimenti impressi alla macchina da presa, combinati ai gesti degli attori, sono di una bellezza sorprendente ancora oggi) che rivela all’Occidente sia il proprio autore che il cinema giapponese: se il grande Ingmar Bergman – anche lui già celebrato – considera il suo La fontana della vergine (Jungfrukällan, 1959) «una miserabile imitazione di Rashômon», tale opera viene poi ripresa negli anni Sessanta da Martin Ritt per farne una versione western con Paul Newman dal titolo L’oltraggio (The Outrage, 1964).

 

È l’inizio ufficiale di una carriera che dà alla storia del cinema delle opere potenti, di una vitalità visiva e di una forza espressiva impressionanti. L’idiota (Hakuchi, 1951), trasposizione nelle nevi dell’isola di Hokkaido dell’omonimo romanzo dell’amato Fëdor Dostoevskij; Vivere (Ikiru, 1952), riconosciuta come la sua migliore pellicola con soggetto contemporaneo (nonché la sua preferita), la storia del riscatto umano di un grigio burocrate che gronda dell’umanesimo del proprio autore e che riceve l’Orso d’argento al Festival di Berlino; I sette samurai (Shichi nin no samurai, 1954), il film più proverbiale e di maggiore successo di Kurosawa, per lungo tempo il più costoso mai realizzato dall’industria cinematografica nipponica – riprese interrotte da continue intemperie meteorologiche, conseguente sforamento del budget e lavorazione protrattasi per più di un anno – e Leone d’argento a Venezia: se un collega come George Lucas ha affermato che «la prima volta che ho visto I sette samurai sono stato sbalordito dalla straordinaria energia che si sprigionava dallo schermo, fu per me uno choc culturale indimenticabile», basti ricordare che un altro collega, Francis Ford Coppola, se lo proiettava durante le riprese del suo film più “assoluto”, Apocalypse Now (1979). Il trono di sangue (Kumonosu-Jo, 1957) rappresenta invece il “tributo” ad un altro suo idolo letterario: è infatti la splendida trasposizione nel Giappone feudale del XVI secolo del Macbeth di William Shakespeare, uno dei migliori adattamenti cinematografici di sempre del Bardo di Stratford-upon-Avon. Seguono poi quelli che vengono definiti film di “svago” e di avventura che vedono ancora protagonista Toshiro Mifune, suo attore feticcio già dai tempi di Rashômon, per poi arrivare a una serie di progetti incompiuti o abortiti che lo allontanano dai propri produttori, anche stranieri, che non gradiscono (o non capiscono) la padronanza del set e il perfezionismo del regista, il quale, nel 1971, tenta il suicidio: «Ero molto depresso, mi sembrava impossibile poter vivere un momento di più» confessa in seguito.

 

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Ristabilitosi, viene invitato in Unione Sovietica per girare il suo film successivo: ha così inizio la seconda, splendida parte della sua luminosa carriera. Dersu Uzala, il piccolo uomo della grande pianura (Dersu Uzala, 1975), storia (vera) della bellissima amicizia nata nella taiga siberiana tra il cacciatore mongolo del titolo e l’esploratore Vladimir Arseniev, girato in lingua russa, vince il premio Oscar nella categoria delle migliori pellicole in lingua straniera. Con l’intervento finanziario di Spielberg, Lucas e Coppola, gira invece Kagemusha, l’ombra del guerriero (Kagemusha, 1980), la storia di un comune ladro che, scelto come mero sosia del grande condottiero Shingen Takeda, si riscatta in battaglia: il film riceve la Palma d’oro al Festival di Cannes e viene nominato agli Academy Awards come miglior film straniero. La pellicola seguente, Ran (1985) – titolo che sta per tumulto, rivolta, caos – rappresenta un adattamento alla cultura e alla storia giapponesi di King Lear, a detta dello stesso regista (ma non solo) «il dramma più cosmico di Shakespeare»: se per molti le scene di battaglia ricreate dall’ormai 75enne “imperatore” sono tra le più impressionati mai realizzate per il grande schermo, Ran frutta al proprio autore la nomination agli Oscar come migliore regista – l’unica di tutta la sua carriera – vincendo il premio per i migliori costumi.

 

Le sue ultime tre opere, Sogni (Konna Yume o mita, 1990), Rapsodia in agosto (Hachigatsu no kyohshikyoku, 1991) e Madadayo – Il compleanno (Madadayo, 1993), sicuramente dotati di una grande sensibilità visiva e di un fascino commovente come possono esserlo i frutti maturi di un genio ma diseguali quanto a felicità espressiva rispetto ai suoi primi capolavori, secondo il loro autore «cercano di parlare in maniera sommessa del cuore dell’uomo: il rispetto (dell’altro, della natura), la gentilezza, la comprensione reciproca, la riconoscenza, l’amicizia, l’umanità insomma, sono la cosa più importante dell’uomo. Se sono riuscito a comunicare questi sentimenti sono felice».

 

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Ad ogni modo sostanziale è il debito della settima arte nei suoi confronti, paradossalmente lui ancora vivente: oltre ai già citati casi legati a Rashômon, altre tre sue opere, tutte baciate dal successo a livello internazionale, vengono infatti, più o meno esplicitamente, riprese e riadattate in schemi occidentali da altrettanti registi suoi contemporanei che ne fanno pellicole destinate a restare nei manuali della storia e dei generi cinematografici. Il già menzionato I sette samurai viene rifatto a Hollywood con il titolo I magnifici sette (The Magnificent Seven, 1960), per la regia di John Sturges e con un cast di attori di prima grandezza: Yul Brynner, Eli Wallach, Steve McQueen, Charles Bronson, James Coburn e Robert Vaughn. La sfida del samurai (Yojimbo, 1961) diventa invece, nelle mani del nostro Sergio Leone, Per un pugno di dollari (1964), vale a dire l’incipit del “western all’italiana”, ed è poi ripreso anche da Walter Hill per il suo Ancora vivo (Last Man Standing, 1996) che vede Bruce Willis nella parte che fu di Toshiro Mifune prima e di Clint Eastwood poi. La fortezza nascosta (Kakushi toride no san-akunin, 1958) è infine la storia di base da cui prende spunto George Lucas («I film di Kurosawa sono talmente carichi di energia che danno voglia di fare del cinema») per la costruzione narrativa della fortunata saga di Guerre stellari (Star Wars, 1977).

 

E tutto questo non certo per sola, mera sfruttabilità commerciale delle fortunate trame. Come ebbe infatti a dire anche Federico Fellini, «in Kurosawa sento il grande spettacolo, che è tutto, fiaba, storia, racconto, romanzo, apologo, messaggio; sento il cinema usato in ogni suo modulo espressivo (dal campo totale al dettaglio, dal fotogramma fisso alle sequenze più movimentate, dall’accelerazione al ralenti); sento l’entusiasmo e la salute del vero artista, una generosità narrativa da far invidia a un Balzac […]. Il suo cinema è un miracolo espressivo». Una generosità che ha “impollinato”, da un punto di vista narrativo e visivo, non poco di quello che è oggi considerato il nostro immaginario cinematografico.