«John Ford, John Ford e John Ford. Nei film di Ford si colgono la vita e il respiro del mondo reale»: così si era sentito rispondere chi aveva avuto l’ardire di interrogare Orson Welles su quali fossero i suoi tre registi cinematografici preferiti. E come dare torto a un genio del cinema – il cui gusto del paradosso era pari solo alla sua stazza, anche fisica – che alla favolosa età di 25 anni e alle primissime prese con lo strumento della propria vocazione, vale a dire una macchina da presa, aveva passato gran parte del periodo di preproduzione del suo inebriante e storico esordio, Quarto potere (Citizen Kane, 1941), facendosi proiettare più e più volte Ombre rosse (Stagecoach, 1939)? E soprattutto quale miglior ricordo per celebrare i 35 anni dalla scomparsa del suo collega e “maestro”, avvenuta il 31 agosto 1973 all’età di 79 anni per un cancro allo stomaco, proprio all’inizio di quegli anni Settanta che avrebbero visto l’esplodere e l’affermarsi di una nuova generazione di cineasti, di american storytellers per immagini quali Peter Bogdanovich, Michael Cimino, Francis Ford Coppola, Brian De Palma, George Lucas, Terrence Malick, John Milius, Martin Scorsese, Steven Spielberg (che, come altri “narratori” di razza, risulta suo debitore oltre che grande ammiratore), e di un nuovo modo di fare cinema? Nato a Cape Elizabeth, vicino Portland (Maine), il 1° febbraio 1894 da una famiglia irlandese originaria della zona di Galway, John Martin Feeney si trasferisce a Hollywood nel 1914 esordendo nel mondo del cinema sulla scorta di suo fratello maggiore Francis che già da qualche tempo lavora in qualità di attore e regista per la Universal e dal quale prende anche in prestito il cognome, facendosi inizialmente chiamare Jack Ford. In tre anni scala tutta la gerarchia: trovarobe, attrezzista, macchinista, cascatore, montatore, assistente alla regia mentre il suo primo film da regista è Il ciclone (The Tornado, 1917). Inizia così una prolifica carriera – oltre cento opere tra cinema muto e sonoro – che chiude cinquant’anni dopo con Missione in Manciuria (7 Women, 1966), affrontando quasi tutti i generi cinematografici ma soprattutto quello per il quale è proverbialmente ricordato, il western, ovvero «il cinema americano per eccellenza» (André Bazin), e portandosi a casa qualcosa come sei premi Oscar: quattro nominali per la migliore regia de Il traditore (The Informer, 1935), Furore (The Grapes of Wrath, 1940), Com’era verde la mia valle (How Green Was My Valley, 1941) e Un uomo tranquillo (The Quiet Man, 1952) mentre due premi speciali gli vengono assegnati per i suoi documentari bellici La battaglia di Midway (The Battle of Midway, 1942) e 7 dicembre (December 7th, 1943). Durante il secondo conflitto mondiale è infatti a capo del “Field Photo Service”, un team di professionisti incaricato di documentare le azioni belliche con il quale arriva anche a sbarcare sulle spiagge di Normandia il giorno stesso del D-Day non appena consolidate le prime teste di ponte.
Tra le sue opere come non dedicare un accenno più esteso almeno alle tre più conosciute tra il grande pubblico. Innanzitutto Furore, uno dei vertici del “cinema sociale” di marca hollywoodiana, una vera e propria epopea, quella della famiglia Joad («Siamo noi il popolo» dice Ma’ Joad) – adattamento, con qualche conciliante revisione, dell’omonimo romanzo di John Steinbeck – in cui anche un semplice ponte sul Colorado può diventare un monte Nebo qualsiasi da cui contemplare finalmente la Promised Land tanto attesa, la California, e dove il primo rivedersi fuori dalla porta di casa tra una madre (Jane Darwell, premio Oscar come migliore attrice non protagonista) e il proprio figlio (Henry Fonda) dopo anni di lontananza per via di una condanna per omicidio scontata in prigione è segnato da una stretta di mano (!). Cinema potente, da capogiro e senza timore di troppa “umanità” al servizio di una storia che è stata di ispirazione anche per Bruce Springsteen (The Ghost of Tom Joad), senza dimenticare lo straordinario apporto di tutto il cast e dell’operatore della fotografia Gregg Toland – che di lì a pochi mesi collaborerà con Orson Welles per il già citato Quarto potere – per quello che è stato definito «[u]n poema di solenne pietà, un gran capolavoro dei film su strada» (Morando Morandini). E a seguire Un uomo tranquillo, amatissimo dal proprio autore, sei settimane di riprese in loco per il più famoso e riuscito dei non pochi e vibrati omaggi alla terra d’origine della propria famiglia, splendidamente fotografata a colori e prevalentemente in esterni: come non ricordare la travolgente camminata finale per boschi, prati e brughiere cui l’ormai ex pugile statunitense Sean Thornton (John Wayne) sottopone la propria caparbia sposa Mary Kate Danaher (Maureen O’Hara) dalla stazione ferroviaria di Innisfree al proprio villaggio per andare a sfidare Red Will (Victor McLaglen), il fratello di lei da sempre contrario alla loro unione, e la celebre scazzottata per la sua dote che ne segue con tutto il paese a scommettere sulla vittoria chi dell’uno chi dell’altro? Un’opera «omerica» – per dirla con il più spassoso personaggio del film, il simpatico ed incallito bevitore di birra scura Michaeleen (Michelino nella versione italiana) Og Flynn (Barry Fitzgerald) – per un sincerissimo e scanzonato “ritratto di popolo”. E per concludere Sentieri selvaggi (The Searchers, 1956), il western di Ford – all’epoca ormai ultrasessantenne e con problemi agli occhi per via di un intervento chirurgico – più amato in assoluto sia dagli appassionati che da critici e colleghi: «Un uomo cercherà il proprio cuore e la propria anima, andrà cercando là fuori per ogni dove, la pace del suo spirito sa che troverà ma dove, o Signore, Signore dove? Via a cavallo, via a cavallo, via a cavallo». Un incipit e un finale da brividi che racchiudono un’elegia sia della comunità familiare (fortunato approdo per alcuni) che della solitudine (condanna volontaria per il vendicativo “cercatore” Ethan Edwards, cui John Wayne presta sembianza, voce e carattere con partecipata adesione).
Texas 1868, una porta che si spalanca, la silhouette in controluce di una donna in grembiule e un carrello a seguire, con il deserto che invade poco a poco l’inquadratura, occhi che guardano lontano, attraverso la polvere e la vastità della Monument Valley, mani che si stringono fraternamente, parole dette con un pudore che tradisce incredulità e sorpresa per ogni nuovo gesto, l’affettuosa ospitalità di un solitario focolare la cui soglia chiede di chinarsi per essere varcata. E dopo un’implacabile quest sulle tracce di una nipote che si sa solamente rapita dagli indiani quel conclusivo, memorabile «Let’s go home, Debbie». Emozioni purissime, da antologia della storia del cinema. Come scrive Jean-Loup Bourget, docente di Letteratura americana e di Studi cinematografici alla Sorbona, «[s]e l’opera di Ford suscita in noi un’ampia varietà di emozioni, se di volta in volta ci esalta, ci intenerisce, ci fa ridere o piangere, significa che, lungi dall’essere riducibile a schemi, essa si incarna non soltanto nei personaggi, ma in un linguaggio cinematografico davvero unico. Sia chiaro: un “linguaggio” in senso metaforico, i cui elementi costitutivi sono l’immagine e la sua inquadratura, il gesto dell’attore, i giochi di luce e d’ombra, il ritmo del montaggio, lo slancio che gli viene impresso dalla colonna sonora. Una lingua bella, ricca, poetica, che sta in un certo senso al cinema hollywoodiano classico […] come la lingua di Shakespeare sta all’inglese dell’età elisabettiana». Il linguaggio del più rappresentativo regista americano di tutti i tempi.
(Leonardo Locatelli)