«Il tempo è maturo per buttar via i copioni e per pedinare gli uomini con la macchina da presa». Così scriveva Cesare Zavattini, uno dei massimi teorici del Neorealismo e uno degli autori della sceneggiatura di Ladri di biciclette, il film che sessant’anni fa, proprio di questi tempi – tratto dall’omonimo romanzo di Luigi Bartolini, era uscito nelle sale il 24 novembre 1948 –, stava accendendo aspri dibattiti nel nostro Paese a poco più di tre anni e mezzo dalla fine della Seconda guerra mondiale e a nove mesi dalla vittoria elettorale della Democrazia Cristiana.

Accolta con toni non certo concilianti dalla critica e dal mondo politico («i panni sporchi si lavano in famiglia» è la frase che sui libri di storia del cinema riassume le accuse rivolte all’opera), decisamente meglio dal grande pubblico, la pellicola risultò uno dei pochi successi commerciali legati all’esperienza neorealista, andando ad occupare l’undicesimo posto nella classifica degli incassi della stagione 1948-1949 e vincendo un premio Oscar quale “film straniero di straordinaria qualità realizzato nel 1949”, anno in cui era sbarcato negli Stati Uniti.

Per il suo autore, il quarantottenne attore e regista Vittorio De Sica, si trattava del secondo riconoscimento dopo quello assegnato a Sciuscià (1946) due anni prima, “per la qualità superlativa raggiunta in circostanze avverse, in un Paese distrutto dalla guerra”. In seguito arriveranno quello per Ieri, oggi e domani (1963) e per Il giardino dei Finzi Contini (1970).

Come ricorda la sceneggiatrice Suso Cecchi D’Amico (classe 1914), che ha partecipato alla sua stesura, «questa sceneggiatura fu un po’ una sceneggiatura itinerante. Non si rispettavano tanto i luoghi che racconta nel suo libro Bartolini, noi volevamo raccontare Roma com’era e quindi con Zavattini, De Sica, spesso Guerrieri – che fu il suo assistente – andavamo in giro a scegliere posti, a incontrare gente che faceva nascere idee. Queste sceneggiature, nate dalla osservazione della realtà, sono una caratteristica dei film del Neorealismo: si sceglievano i temi e poi si andava a studiare il tema sui luoghi, per farci noi un’idea di una realtà che poi portavamo sullo schermo».

Così Ladri di biciclette, che aveva “rischiato” di vedere Cary Grant nel ruolo del protagonista per volontà del famoso produttore hollywoodiano David O. Selznick, inizialmente intenzionato a finanziare l’opera, finì per schierare unicamente attori non professionisti (il diciannovenne Sergio Leone, assistente volontario di De Sica sul set, vi compare di sfuggita), diventando una delle pellicole più viste ed amate di tutti i tempi, una drammatica “avventura del quotidiano” che sembra prendere spunto dal niente, un capolavoro della storia del cinema “raccolto” in soli 85 duri, potenti, poetici minuti dove, come scrive Morando Morandini, «l’amore per i personaggi diventa vera pietà, la poesia del quotidiano non nasconde la realtà sociale».

“La vita degli umili in un’opera d’arte”, come recita la frase di lancio su una delle locandine del film, cioè l’esistenza di coloro che, anche nella poetica di De Sica, “sono” ma non sembrano trovare spazio sulla scena di quello che si considera il mondo, o almeno nell’immagine del mondo che il cinema stesso contribuisce a creare (per alcuni, propagandare).

L’incipit stesso dell’opera è illuminante al proposito: sulle note del dolente tema musicale ideato da Alessandro Cicognini, il protagonista Antonio Ricci (interpretato da Lamberto Maggiorani, operaio alla Breda prima di venire licenziato) pare venire raccolto dai bordi della Storia e trascinato nella storia («Ricci! C’è Ricci? Ricci! Ricci!»), letteralmente “recuperato” dallo sguardo della macchina da presa che ne immortalerà le gesta – narrate con partecipazione, emanando ad ogni sguardo e ad ogni passo la dignità di un eroe antico – per poi lasciarlo allontanare, tra la folla vociante e ignara dei tifosi appena usciti dallo stadio, mano nella mano con il figlioletto Bruno: il pianto di quest’ultimo ha salvato dalla denuncia e dal conseguente arresto il padre, “ladro di biciclette” a sua volta per disperazione.

Come ha dichiarato il grande storico e critico del cinema André Bazin, Ladri di biciclette rappresenta «la massima espressione del neorealismo, eppure sembra una pura favola: non uno spettacolo reale, ma la realtà fatta spettacolo».

(Leonardo Locatelli)