Eichwald, Germania del Nord, 1913. A un anno esatto dall’ingresso nel “Secolo breve” (Grande Guerra e nazionalsocialismo sono davvero dietro l’angolo), un villaggio rurale che si affida a tre autorità (il proprietario terriero, il pastore protestante e il medico locale) diventa il laboratorio in cui il «cronista dell’abiezione umana» Michael Haneke sonda non tanto la banalità del Male quanto – in fuoricampo – le sue radici misteriose e profonde. Nata come idea per una miniserie televisiva, girata in pellicola a colori poi desaturata e racchiusa tra due dissolvenze (in apertura e in chiusura), la Palma d’Oro di Cannes 2009 è, insieme, un’opera in costume e un thriller anomalo, un L’albero degli zoccoli nordico visto da Kubrick.

«Band n. ([e]s, Bänder): 1. (Streifen) nastro, fascia; 2. (Anat) legamento, legatura; 3. (Förderband) nastro trasportatore; 4. (Tonband) nastro, nastro magnetico; 5. (Rad, Fis) banda; 6. (Cin) (Filmstreifen) pellicola, film; 7. (Faßreifen) cerchio (di botte)».

Un più che simbolico richiamo alla purezza, all’innocenza: questo vuole essere, nelle parole del pastore che lo impone ai due figli maggiori come parte di una punizione, “das weisse Band”, il “nastro bianco” del titolo. Ma anche quello che il regista austriaco (di origini tedesche: è nato a Monaco di Baviera nel 1942) Michael Haneke – da qualcuno definito il «cronista dell’abiezione umana» – (pro)pone al pubblico è un “Band”, anche se di altra natura e colore: 144 minuti di “pellicola” che, quanto a richiamo per gli spettatori che gli si sottopongono, non difetta certo di densità (di racconto), ricchezza (di significati) e lucidità (di sguardo).

Dal nero della propria materia, nell’incipit del film sentiamo e vediamo il cinema emergere dal silenzio e dal buio, prima con una anziana voce fuori campo che inizia il racconto e successivamente con una dissolvenza dal nero dopo titoli di testa come non se ne vedono più nelle sale cinematografiche (ruoli, nomi e cognomi in debito, rigoroso, silenzioso ordine).

E si badi bene che il mondo su cui si apre l’occhio della macchina da presa di Haneke non è registrato in bianco e nero – come è capitato di leggere – ma è ripreso con una normale pellicola a colori poi desaturata in fase di stampa per ottenerne una vasta gamma di grigi. Nastri bianchi, pellicole nere, scale di grigi… siamo davvero dalle parti del Cinema. Dal quale ci si sente quasi trasportati – grazie all’accuratissima ambientazione e ad un ritmo che non ha certo paura del tempo – dentro un nuovo L’albero degli zoccoli (1978, Ermanno Olmi). Se solo le parole di Lutero avessero attecchito anche nella Bassa bergamasca e se dietro la macchina da presa ci fossero stati gli “eyes wide shut” di Stanley Kubrick.

A fronte di quello che vediamo e sentiamo, non serve attutire l’inquietudine che monta fotogramma dopo fotogramma seguendo la falsa pista della caccia al colpevole (o ai colpevoli) che si scatena in quello che sembra un anomalo thriller in costume. Un tarlo si insinua lentamente tra una sequenza e l’altra e giace lì, in ogni inquadratura, pericolo reale o fatto presentire dal clima venutosi a creare e dai non pochi, evocativi fuoricampo che il racconto si concede.

Vediamo sondato non tanto il Male – che il grande schermo tende sovente a spettacolarizzare -quanto qualcosa di altrettanto mortifero, non esplicitamente evidente ma tuttavia presente, che proprio l’esperienza protestante in particolar modo afferma secondo la sua serietà e imponenza: il “peccato originale”. Una consapevolezza da cui essa fa discendere la propria coscienza della condizione di miseria dell’uomo e il proprio radicale pessimismo circa la sua esistenza.

 

Vengono alla mente le parole del suo più rappresentativo teologo, Karl Barth, che nel suo Dogmatica ecclesiale (iniziato nel 1932 e rimasto incompiuto) deve registrare: «Ma allora, che differenza c’è tra un uomo ferito dal peccato e un animale? Nessuna. Nessuna, è un animale», proclamando l’assoluto contrasto, l’assoluta “discontinuità” tra Dio e la sua creatura, tra fede e ragione, tra rivelazione e esperienza.

 

Di fronte alla radiografia di Haneke viene da domandarsi chi si può salvare o a chi ci si può aggrappare. Anche perché non sembra bastare la figura dell’insegnante, dell’educatore, l’unica “autorità” del villaggio (tra barone, pastore e dottore) senza figli, che vive però una storia d’amore pura, innocente, da “nastro bianco” (anche se dovrà cambiare paese e attività). Il virus che vediamo operare nel piccolo laboratorio di Eichwald è pronto ad esplodere in tutta la sua virulenza nella Grande Guerra prima e nel nazionalsocialismo poi.

 

«[O]gni momento della storia estremo è stato preparato alla base da un certo tipo di educazione socio-familiare e, a monte, dall’applicazione perversa di una qualunque confessione religiosa» (Haneke dixit): ecco il motivo per cui mai si potranno rintracciare i prodromi del fascismo anche in uno solo dei fotogrammi della pellicola di Olmi. Da Palma d’Oro (1978) a Palma d’Oro (2009)…

 


 

 


Trailer fornito da Filmtrailer.com