“The Imaginarium of Doctor Gilliam”: con il pensiero rivolto più alle «tales, tempests and such drolleries» di Shakespeare che al Faust di Marlowe e Goethe, l’ultima, generosa, immaginifica, “imperfetta” fatica del 69enne regista anglo-americano Terry Gilliam rappresenta – stante i lutti e le disavventure produttive – una “miracolosa” riflessione sull’arte non solo cinematografica, che torna finalmente a esibire parecchi dei temi a lui cari.
Più che un omaggio al talento di Heath Ledger, una dichiarazione di amore per il proprio mestiere rivolta a chi ancora ha la necessità/sente il desiderio di raccontare/ascoltare storie, di quelle che “fanno andare avanti il mondo”. Un passo in avanti verso l’attesissimo capolavoro di tutta una vita: la rivisitazione del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes Saavedra…
Un film compiutamente imperfetto. E come poteva essere altrimenti, dati la prematura scomparsa durante la lavorazione sia dell’attore principale (Heath Ledger) che di uno dei produttori (William Vance) – alla cui memoria è dedicato – e l’incidente stradale che ha visto coinvolto lo stesso regista (Terry Gilliam)?
Il vero effetto speciale questa volta sta già nel semplice fatto che una pellicola così abbia visto la luce (meglio, il buio delle sale): «La cosa bella è che il film è venuto abbastanza bene da essere degnamente l’ultimo film di Heath Ledger. È stato un lavoro di puro affetto da parte di tutti, altrimenti non sarebbe mai stato finito. Affetto nei riguardi di uno solo». Così Gilliam alla première londinese del film.
Londra, tra l’altro, i cui scorci più caratteristici (si riconoscono Saint Paul’s Cathedral e Tower Bridge) insieme alle periferie più desolate fanno da sfondo contemporaneo agli spostamenti del cosiddetto “Imaginarium”, il sorprendente teatro ambulante del Dottor Parnassus. Una figura che ha più di un debito con il Prospero shakespeariano: mentre la pellicola «geograficamente nell’emisfero settentrionale, socialmente ai margini, narrativamente ancora al principio» (per parafrasare il fido nano Percy) avanza, in platea ci si aspetta di intravvedere proprio la “wooden O” del risorto Globe Theatre (“Theatrum Mundi”).
E difatti, lasciando da parte il fuorviante titolo italiano, nel corso del film proprio questo “Imaginarium” emerge come il vero cuore del racconto, grazie allo specchio – una sorta di sipario più che una reale parete riflettente – che ne è al centro e passato il quale le persone che vi si avventurano sospinte dagli attori si trovano in mondi dove vedono materializzate le proprie fantasie e dove si gioca la partita a colpi di anime guadagnate o perse tra il Dottor Parnassus e il signor Nick (cioè il diavolo).
Uno scontro che si svolge e si compie dentro i mondi immaginari e non nel mondo reale (quest’ultimo, anzi, apparendo ben presto solo come un pretesto per l’esistenza degli altri) e che di faustiano ha davvero ben poco (i due sembrano conoscenti di millenaria data che scommettono quasi per divertimento).
Mentre nell’impagabile sottofinale, sotto il non lontano sguardo del signor Nick che pare tentarlo a una nuova scommessa, Parnassus – un Prospero che ha ormai “spezzato la verga” e “annegato il libro”, reduce da un lungo vagabondaggio nel deserto all’interno dello specchio (quindi dei suoi stessi pensieri e fantasie) – è ora un burattinaio che diletta i passanti con una versione quasi caricaturale e senza più alcuna pretesa del suo “Imaginarium”, narratore narrato da se stesso il cui nuovo principale è rappresentato – specularmente alla vicenda fin lì raccontata – da Percy.
Il regista ha affermato che «[i]n fondo lo specchio magico che vediamo è il cinema, ma anche la radio, la musica, quello che fa l’arte per permetterci di fuggire dal nostro piccolo mondo e dal mondo che si vorrebbe venisse considerato come vero, stando ai media».
A ben vedere lo specchio funziona non in quanto tale ma unicamente grazie alla mente di Parnassus, una chiara allusione al cinema e all’insostituibile ruolo del regista, il soggetto che, solo, può usare di questo strumento per materializzare attraverso di esso le sue storie, le sue fantasie, i suoi mondi. E con essi quelli del pubblico: «C’è meno immaginazione nel cinema e questo è il mio tentativo di cercare di sorprendere e dar gioia». Long live “The Imaginarium of Doctor Gilliam”, allora.
In attesa di poterlo ritrovare ben presto sul grande schermo, stavolta non più su di un carrozzone che si aggira per Londra ma in sella a Ronzinante nelle assolate lande spagnole. Un progetto, quello del Don Quixote, accarezzato per un decennio e poi abbandonato nell’autunno del 2000 dopo sei sfortunatissimi giorni di riprese con il francese Jean Rochefort nei panni dell’hidalgo “dalla triste figura” e Johnny Depp nel ruolo di Sancho Panza.
Un’odissea narrata nel documentario Lost in La Mancha (2001, Keith Fulton e Louis Pepe): i 122 minuti di Parnassus ci dicono che è giunto il tempo di “ritrovarsi” «[e]n un lugar de la Mancha, de cuyo nombre no quiero acordarme».
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Trailer fornito da Filmtrailer.com