«L’aspetto che più mi affascina nel fare film è la possibilità di creare una nuova grammatica con le immagini, indagando al tempo stesso sulla condizione umana»: ecco come un “narratore di storie” (come lui stesso si è definito) racconta il bello del proprio mestiere. Un autore che nel novembre 1974, giusto trentacinque anni fa, presentava a Monaco di Baviera una pellicola a suo modo “estrema” e misteriosamente suggestiva, L’enigma di Kaspar Hauser (Jeder für sich und Gott gegen alle), ovvero – come recita il ben più pregnante titolo originale – “Ognuno per sé e Dio contro tutti”. Forse la sua opera più celebrata e fortunata (Premio speciale della giuria e Premio Internazionale della Critica al Festival di Cannes 1975), sicuramente quella che gli è valso il definitivo riconoscimento del proprio statuto di autore emergente e considerata dallo stesso regista – Werner Herzog, classe 1942 e attivo dal 1968 – come un primo bilancio del suo lavoro e della sua poetica, per il quale ha attinto ad un rapporto del 1833 e agli scritti dello stesso Kaspar Hauser, vale a dire una poesia e il principio di quella che doveva diventare la sua autobiografia.

Le prime inquadrature del film, trasfigurate dall’effetto flou, sono accompagnate da un’aria del primo atto de Il flauto magico (Die Zauberflöte, 1791) di Wolfgang Amadeus Mozart, quando cioè Tamino, profondamente colpito dalla bellezza del ritratto di Pamina che ha tra le mani, decide di partire con Papageno per andare a salvare la principessa («Dies Bildnis ist bezaubernd schön, / Wie noch kein Auge je gesehn. / Ich fühl’ es, wie dies Götterbild / Mein Herz mit neuer Regung füllt»; «Questo ritratto è meravigliosamente bello, / Quanto ancora occhio alcuno ha visto mai. / Sento come tale immagine divina / Riempia il mio cuore d’un nuovo sentimento»). Una breve sequenza che vuole anticipare alcuni contenuti dell’itinerario del protagonista, dell’irresistibile richiamo esercitato dall’esserci degli uomini e delle cose e dal suo essere tra e davanti a loro, uomo anagraficamente adulto ma assolutamente incosciente del mondo.

E a seguire una didascalia che recita: «La domenica di Pentecoste dell’anno 1828, nella città di N., fu raccolto un trovatello che era stato abbandonato e che più tardi chiamarono Kaspar Hauser. Sapeva a malapena camminare e diceva solo un’unica frase. In seguito, quando imparò a parlare, raccontò di essere stato rinchiuso per tutta la sua vita in una cantina buia e umida, di non aver avuto alcuna idea del mondo e di non aver saputo che ci fossero altri esseri umani all’infuori di lui, poiché gli si spingeva dentro il cibo mentre dormiva. Non aveva mai saputo cosa fosse una casa, un albero, la lingua. Proprio solo alla fine un uomo era entrato da lui. L’enigma della sua origine non è stato ad oggi risolto».

Ecco quindi le seicentesche note del Canone di Johann Pachelbel a commentare l’inquadratura di un campo di grano le cui spighe ondeggiano spinte dal vento sotto un cielo che pare promettere pioggia e l’ulteriore didascalia «Hören Sie denn nicht das entsetzliche Schreien ringsum, das man gewöhnlich die Stille heisst?» («Non sente dunque tutt’intorno queste spaventose grida, che di solito chiamano silenzio?»), citazione tratta da uno dei più amati capolavori della letteratura tedesca, Lenz di Georg Büchner. Stando allo stesso regista, infatti, «[i]l cinema, come la grande musica, conforta gli animi. La vera grande musica e il grande cinema hanno sempre qualcosa di consolante, contrariamente alla pittura e all’architettura. E la letteratura… invece a volte sì. Lenz di Buchner è qualcosa di confortante». Sempre sulle note di Pachelbel, passiamo poi alle immagini di un uomo vestito di pochi, luridi panni “in una cantina buia e umida”…

E, di lì a poco, la sua “caduta nel mondo”: una misteriosa figura maschile di mezza età, quasi sempre nascosta da un mantello e un cappello neri, lascia solo sulla piazza l’uomo che abbiamo visto rinchiuso nella cantina, con una lettera anonima in una mano e un libro di preghiere nell’altra («Tieni la lettera forte. Rimani qua. Non muoverti. Aspettami qui»). Una suggestiva scena di “nascita”, di certo una delle più poetiche e affascinanti metafore cinematografiche sull’origine dell’uomo e sul suo “essere qui”, dove Dio ha le fattezze di un uomo nerovestito che, così come “mette” nella vita il protagonista, torna infine (così sembra) a “riprenderselo”: tutta la vicenda biografica (conosciuta) del trovatello Kaspar Hauser è racchiusa tra questi due eventi. Di mezzo l’inevitabile scontro con la società del tempo, alla stregua – l’immagine è sempre del regista – di una novella La Passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc, 1928), capolavoro muto del grandissimo Carl Theodor Dreyer.

 

 

Se, come ha scritto Alberto Barbera, «[t]utto il cinema di Herzog appare […] teso alla ricerca di immagini mai viste o, meglio, viste per la prima volta: territori sconosciuti, mondi che nessuno sguardo umano ha mai sfiorato, non semplicemente per stupire o catturare l’attenzione meravigliata dello spettatore, ma per andare oltre la nostra abituale capacità di vedere, per cogliere ciò che sta al di là dell’apparenza del reale, per superare la soglia che separa la superficie dalla profondità, il già noto dallo sconosciuto e dall’enigmatico, lo stereotipo dalla verità», Herzog stesso, recentemente sollecitato durante una lunga intervista circa l’opera in questione, ha tenuto a ricordare che «L’enigma di Kaspar Hauser è ovviamente molto legato a questo argomento [avere come l’impressione di vedere la prima immagine, di aprire gli occhi la prima volta, ndr]. A che cosa significhi uscire da una cantina buia dopo esservi stati da sempre rinchiusi e vedere la verità per la prima volta, o una casa, o altri esseri umani. Questo fa chiaramente parte del soggetto del film. Forse è così, ma aprire gli occhi per la prima volta ha già una qualità in sé e significa guardare il mondo, guardare le immagini per la prima volta, ma con grande compassione e ammirazione. Io stesso sono innamorato del mondo, mi sveglio e sono innamorato del mondo. Questo è un modo molto significativo di vedere il mondo […]».

Quale migliore invito alla visione – ovviamente “ognuno per sé e Dio con(tro) tutti” – di un’opera durante la quale potersi godere – scriveva Grazzini recensendola sulle colonne de Il Corriere della Sera al suo arrivo in Italia, il 28 gennaio 1981 (!) – «l’estensione e l’altitudine d’un talento di cineasta che è fra i maggiori e coerenti del nostro tempo (anche fra i più bizzarri)».

 

(Leonardo Locatelli)