Un anno intero visto dalla porta d’ingresso di un cinema… . Che cosa riservavano al proprio pubblico le sale cinematografiche italiane nel 1963? Beh, a scorrerne un modesto ma esemplare elenco, se non si resta forse a bocca aperta, c’è almeno di che sgranare gli occhi: Viridiana del provocatore surrealista per eccellenza, lo spagnolo Luis Buñuel, che per questo film si era guadagnato la Palma d’Oro al Festival di Cannes 1961 e l’accusa di blasfemia; il sontuoso e poetico Otto e mezzo di Federico Fellini, che la sera del 13 aprile 1964 avrebbe portato a casa l’Oscar – l’altro sarà per i costumi di Piero Gherardi – quale miglior film straniero; Il Gattopardo di Luchino Visconti, affresco storico anch’esso premiato con la Palma d’Oro a Cannes (il 22 maggio 1963); L’infanzia di Ivan, esordio alla regia del russo Andrej Tarkovskij e Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia 1962, Una storia moderna: l’ape regina, opera (censurata) che segnava il rientro in Italia del regista milanese Marco Ferreri dopo la brevissima parentesi spagnola; Gli uccelli, una delle pellicole più conosciute del regista più “visto” della storia del cinema, Alfred Hitchcock; I fidanzati, opus n. 3 – dopo Il tempo si è fermato (1959) e Il posto (1961) – di Ermanno Olmi; Tom Jones, travolgente commedia in costume tratta dall’omonimo romanzo di Henry Fielding, sceneggiata dal “giovane arrabbiato” John Osborne, diretta dall’esponente di punta del Free Cinema inglese Tony Richardson (padre dell’appena scomparsa Natasha) e vincitrice dei premi Oscar per i migliori film, regia e sceneggiatura non originale nella serata che incoronerà anche Fellini l’anno seguente; Il servo, primo frutto della collaborazione tra il regista Joseph Losey e Harold Pinter, qui in veste di sceneggiatore, uno studio delle ambigue logiche che si sprigionano tra individui di classi differenti; Le mani sulla città di Francesco Rosi, storia di speculazioni e scandali negli anni del boom economico, Leone d’Oro a Venezia in settembre; Lawrence d’Arabia dell’inglese David Lean, proverbiale maestro dei “kolossal con l’anima”, vincitore di sette statuette nell’edizione 1962 degli Academy Awards la sera dell’8 aprile 1963.
Eppure, tra tutti questi grandi titoli, uno solo è il film di quell’anno che in questo week-end di fine marzo 2008 verrà tolto dallo scaffale dei ricordi e rispolverato ad uso e consumo di qualche più o meno fugace box di approfondimento in quotidiani, periodici, pagine web e blog vari. Stiamo ovviamente parlando de I mostri di Dino Risi, nel panorama cinematografico italiano il film “a episodi” per antonomasia, i cui venti titoli (o anche solo alcuni di questi) non ci possono non suonare almeno familiari: L’educazione sentimentale, La raccomandazione, Il mostro, Come un padre, Presa dalla vita, Il povero soldato, Che vitaccia!, La giornata dell’onorevole, Latin Lovers, Testimone volontario, I due orfanelli, L’agguato, Il sacrificato, Vernissage, La musa, Scenda l’oblio, La strada è di tutti, L’oppio dei popoli, Il testamento di Francesco, La nobile arte. Venti istantanee – interpretate dai camaleontici Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi e scritte da Age, Furio Scarpelli, Elio Petri, Dino Risi, Ettore Scola e Ruggero Maccari – che fotografano un quadro aspro, grottesco e desolante dell’Italia di quel periodo, facendo passare lo spettatore dalla risata al sorriso a denti stretti e sconfinando talvolta in un ghigno che lascia l’amaro in bocca, nelle quali gli autori ne hanno davvero per tutti. Padri disonesti, attori di teatro tanto vanagloriosi quanto cinici, mariti traditi da quelli che considerano amici dal prezioso consiglio; registi alla moda che “fellineggiano” sul set a loro piacimento, uomini di provincia fintamente ingenui, falsi poveri che corrono allo stadio lasciando moglie e figli ammalati in una baracca, parlamentari onorevoli solo a parole, avvocati e mendicanti che non si fanno molti scrupoli nei confronti altrui, vigili urbani “in agguato” dietro il chiosco dei giornali, uomini sposati che lasciano un’amante per un’altra, capifamiglia che rimorchiano prostitute per festeggiare l’acquisto della nuova auto, memri femminili di giurie letterarie che insegnano a giovani scrittori il prezzo (in natura) della celebrità, coppie di borghesucci blasé che pensano alla loro villa in campagna davanti allo spettacolo (cinematografico) di un eccidio nazista, pedoni in cerca di comprensione che si rivelano spericolati autisti una volta al volante, mariti storditi dalla televisione che “scordano” le proprie mogli a letto con i loro amanti, predicatori televisivi dediti unicamente allo sfrenato amore per la propria immagine, vecchi pugili in disarmo che si giocano la vita su un ring spinti da vecchie conoscenze, belle parole e facili guadagni.
Una coda nostalgica (travestita da aggiornamento) sarebbe poi arrivata verso la fine degli anni Settanta. I nuovi mostri (1977), quattordici episodi – L’uccellino della Val Padana, Con i saluti degli amici, Tantum Ergo, Autostop, Il sospetto, First Aid (Pronto soccorso), Mammina e mammone, Cittadino esemplare, Pornodiva, Sequestro di persona cara, Come una regina, Hostaria!, Senza parole, Elogio funebre – firmati a sei mani sempre dallo stesso Dino Risi insieme a Mario Monicelli e Ettore Scola, che avrebbero visto tornare sullo schermo i “mostri” originali, Gassman e Tognazzi, in compagnia, tra gli altri, di Alberto Sordi, Ornella Muti, Orietta Berti e Eros Pagni. Insomma, una pellicola che ha fatto epoca e la cui versione restaurata è stata presentata un anno fa, nel 2008, alla 65ª Mostra del Cinema di Venezia, con l’integrazione di due episodi, tagliati nel 1963, con protagonista Ugo Tognazzi, Il cerbero e L’attore. Ora che qualcun’altro, sulla scia, si cimenta (quanto seriamente?) nel tentativo di fermare su schermo i caratteri salienti delle brutture italiche odierne, è giusto chiedersi se a un grande schermo ormai “decaduto” in alcune delle sue funzioni – non più rito di massa come negli anni Sessanta – ancora convenga ergersi a specchio delle meschinità e delle piccolezze del nostro Paese, al quale basta accendere il piccolo schermo – che, decisamente meno “impegnativo”, l’ha soppiantato nell’attenzione dei più – per incappare in situazioni e spaccati ben più deprimenti.
In conclusione torna alla memoria la straordinaria sequenza di un’altra opera contemporanea a quella in questione, il bellissimo episodio intitolato La ricotta diretto da Pier Paolo Pasolini e inserito nel lungometraggio collettivo Ro.Go.Pa.G – Laviamoci il cervello. Su di un prato alla periferia di Roma un regista (figura interpretata da Orson Welles e nella quale si riconoscono i tratti dello stesso Pasolini) è alle prese con un film sulla Passione di Gesù Cristo. Durante una pausa sul set, che lo trova seduto sulla sua sedia mentre alcuni membri della troupe e del cast si scatenano in balli moderni, viene infastidito da un giornalista armato di taccuino. Quest’ultimo, una volta ottenuta l’intervista, fa per allontanarsi ma il regista richiama la sua attenzione:
R.: «Ehi! “Io sono una forza del Passato”. È una… poesia! Nella prima parte il poeta ha descritto certi ruderi antichi di cui nessuno più capisce stile e storia e certe orrende costruzioni moderne che invece tutti capiscono. Poi attacca appunto così: “Io sono una forza del Passato. Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, dalle pale d’altare, dai borghi abbandonati sugli Appennini e sulle Prealpi, dove sono vissuti i fratelli. Giro per la Tuscolana come un pazzo, per l’Appia come un cane senza padrone, e guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria cui io assisto, per privilegio d’anagrafe dall’orlo estremo di qualche età sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta. E io, feto adulto, mi aggiro più moderno di ogni moderno a cercare fratelli che non sono più”. Ha capito qualcosa?»
G.: «Beh… ho capito molto… “Giro per la Tuscolana”…»
R.: «Scriva, scriva quello che Le dico. Lei non ha capito niente perché è un uomo MEDIO. È così?»
G.: «Beh, sì!»
R.: «Ma Lei non sa cos’è un uomo medio! È un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista…»
[il giornalista sghignazza soddisfatto, prendendo nota di tutto]
R.: «È malato di cuore, Lei?»
G.: «No, no, facendo le corna!»
R.: «Peccato! Perché se mi crepava qui davanti, sarebbe stato un buon elemento per il lancio del film. Tanto Lei non esiste. Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione. E il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale. Addio!»
“Mostri” per “mostri”, la nostra preferenza va allo sguardo disincantato eppure lancinante – richiamo nostalgico a una Bellezza, la Tradizione, che non si riconosce più ma che ci portiamo inevitabilmente addosso – del poeta (e profeta) “scomodo” Pier Paolo Pasolini piuttosto che al corrosivo cinismo dello psichiatra mancato – laureato in medicina – Dino Risi.
(Leonardo Locatelli)