«Lawrence, solo due tipi di esseri si trovano bene nel deserto: i beduini e gli dei. E Lei non è fra questi». Per tutta risposta un uomo accende un fiammifero e lo lascia bruciare per un po’ prima di spegnerlo con un soffio. Ecco che sul buio calato sull’inquadratura e accompagnato da una musica in tono ascendente ma ancora vaga, dal limitare della linea dell’orizzonte si alza il disco infuocato del sole: la musica cresce sempre più di intensità fino ad esplodere in una tema che è entrato di diritto nella storia del cinema, proprio nel momento in cui tutto lo spazio – dal primo piano allo sfondo – è occupato da immense dune. Un celebre raccordo di montaggio, di quelli destinati a suscitare profetiche fantasie in un quindicenne di Scottsdale, nel deserto dell’Arizona: Steven Spielberg. Un oceano di sabbia da cui spuntano solo due punti neri, nemmeno fosse un quadro di epoca romantica, un uso del campo lungo che entra nei manuali e fa la fortuna del film in questione, Lawrence d’Arabia (Lawrence of Arabia, 1962), il celebre kolossal firmato dal regista inglese David Lean, spentosi il 16 aprile 1991 per un cancro alla gola. A Los Angeles, nella notte tra sabato e domenica scorsi, vinto lui pure da un tumore, lo ha raggiunto l’altro grandissimo artista (e amico) indissolubilmente legato – insieme al premiato direttore della fotografia Freddie Young (1902-1998) – alla sequenza appena descritta come a moltissime altre, il compositore Maurice Jarre, che del regista disse: «Gli devo tutto… Mi ha dato i migliori film, l’opportunità di ricevere tre Oscar su quattro film – non c’è male! – e mi ha dato la sua amicizia. Era un gentiluomo. Quando lo persi, persi non solo un grande regista, ma un grande amico».
Maurice-Alexis Jarre nasce a Lione il 13 settembre 1924 e, ingegnere mancato, si iscrive al Conservatorio a Parigi, arrivando a comporre la sua prima colonna sonora nel 1951 per l’accompagnamento dei 23 minuti del cortometraggio Hôtel des Invalides di George Franju, maestro riconosciuto del documentario francese. Sempre Franju gli offre la possibilità di scrivere il suo primo lavoro per un lungometraggio narrativo, ovvero La fossa dei disperati (La tête contre les murs, 1958), seguito da Occhi senza volto (Les yeux sans visage, 1960). L’anno successivo arriva la grande occasione: il produttore Sam Speigel gli propone di lavorare alla colonna sonora di un’opera in produzione, il già citato Lawrence d’Arabia. L’8 aprile 1963 il film risulta il dominatore assoluto della notte degli Oscar, portandosi a casa sette statuette: una è per la sua colonna sonora. È l’inizio di un sodalizio che sfocia in altre tre pellicole e in altri due premi Oscar nominali a Jarre, per la prima e l’ultima: Il dottor Zivago (Doctor Zhivago, 1965) con l’altrettanto proverbiale “Tema di Lara” alla balalaika, La figlia di Ryan (Ryan’s Daughter, 1970) e Passaggio in India (A Passage to India, 1984). Un altro lavoro comune sarebbe stato Nostromo, dall’omonimo romanzo di Joseph Conrad, se David Lean non fosse scomparso poco tempo prima di iniziare le riprese. È grazie a questi clamorosi successi che il nome di Maurice Jarre resta per sempre legato a quello del regista inglese. Un mese e mezzo fa, il 12 febbraio 2009, presenzia alla Berlinale che lo vuole premiare con un Orso d’Oro alla carriera. Nelle parole di Dieter Kosslick, direttore della manifestazione, «i compositori di colonne sonore sono spesso messi in ombra dai grandi registi e dalle stelle del cinema. Diverso è il caso di Maurice Jarre – le musiche de Il dottor Zivago, come molti dei suoi lavori, sono universalmente note e rimangono indimenticabili nella storia del cinema».
La sua carriera lo vede infatti collaborare con altri (più o meno) grandi registi del suo tempo e anche più giovani, alcuni addirittura ancora in circolazione, il cui elenco – stiamo parlando di qualcosa come oltre 160 colonne sonore (!) – è davvero impressionante per quantità, qualità e varietà di stili: citiamo, tra gli altri, Richard Fleischer (Dramma nello specchio, 1960; Il principe e il povero, 1977), Ken Annakin (Il giorno più lungo, 1962), John Frankenheimer (Il treno, 1963; Grand Prix, 1966; L’uomo di Kiev, 1968), Fred Zinnemann (… E venne il giorno della vendetta, 1964), William Wyler (Il collezionista, 1965), Richard Brooks (I professionisti, 1966), Henry Hathaway (Poker di sangue, 1968), Karel Reisz (Isadora, 1968), Luchino Visconti (La caduta degli dei, 1969), Alfred Hitchcock (Topaz, 1969), George Stevens (L’unico gioco in città, 1970), Terence Young (Sole rosso, 1971), John Huston (L’uomo dai sette capestri, 1972; L’agente speciale Mackintosh, 1973; L’uomo che volle farsi re, 1975), Elia Kazan (Gli ultimi fuochi, 1976), Franco Zeffirelli (Gesù di Nazareth, 1977), Volker Schlöndorff (Il tamburo di latta, 1979; L’inganno, 1981), Herbert Ross (Rebus per un assassino, 1979), Harold Becker (Taps – Squilli di rivolta, 1981), Peter Weir (Un anno vissuto pericolosamente, 1982; Witness – Il testimone, 1985; Mosquito Coast, 1986; L’attimo fuggente, 1989; Fearless – Senza paura, 1993), Wolfgang Petersen (Il mio nemico, 1985), Roger Donaldson (Senza via di scampo, 1987), Adrian Lyne (Attrazione fatale, 1987; Allucinazione perversa, 1990), Michael Apted (Gorilla nella nebbia, 1988), Paul Mazursky (Nemici, una storia d’amore, 1989), Jerry Zucker (Ghost – Fantasma, 1990), Alfonso Arau (Il profumo del mosto selvatico, 1995), Michael Cimino (Verso il sole, 1996). Una lista che rappresenta ben di più di un lungo ed arido elenco: il variegato ritratto in sette note (e loro combinazioni) di uno degli uomini che ha messo il cinema in musica.
(Leonardo Locatelli)