«Quattro giorni prima di Hitler», come puntualizzava lui stesso, non senza ironia. Esattamente 120 anni fa, il 16 aprile 1889, nasceva in East Street, nel quartiere di Lambeth a Londra, Charles Spencer Chaplin – detto Charlie –, «l’unico genio che il cinema abbia prodotto» (George Bernard Shaw), noto alle platee di tutto il mondo coi panni di Charlot, il personaggio in assoluto più famoso della storia del cinema, una delle poche icone del secolo scorso che resisteranno senza dubbio all’usura del tempo nella memoria collettiva. Un cineasta (attore, regista, musicista, produttore di se stesso) che «ha fatto una cosa possibile solo nel cinema […], cioè dipingere, modellare, scolpire addirittura la propria carne e il proprio volto: una trasposizione d’arte. […] Ecco perché, dal punto di vista dell’immagine animata, quest’uomo è il primo creatore completo, e, per ora, l’unico», come già nel 1921 scriveva il regista e critico francese Louis Delluc in un articolo dal titolo Charlot. «Un film di Charlot si può vedere venti volte come si può leggere venti volte una poesia» ha affermato Pier Paolo Pasolini: con l’entusiasmo di chi ancora ricorda lo stupore destato dalla visione de La febbre dell’oro (The Gold Rush, 1925), la sorprendente scoperta – in una sera di Natale – della “danza dei panini”, ripercorriamo allora il cammino di una carriera davvero unica ed inestimabile.

Quando nasce nel 1889, Charlie ha già un fratello, Sydney, di quattro anni. I genitori, Charles Chaplin senior e Hannah Hill, nutrono la passione del palcoscenico: il primo è un artista di secondo piano di music-hall che si presenta come “cantante professionista”; la seconda lavora, con scarso successo, come soubrette. Nel 1890, mentre Chaplin senior è in tournée negli Stati Uniti, Hannah conosce un altro artista di music-hall da cui ha un figlio, ragione per cui, al suo rientro, il marito li abbandona. Nel 1895 Hannah comincia a manifestare i primi segni di squilibrio mentale, una malattia che va peggiorando col passare del tempo: l’anno dopo inizia per lei un lungo periodo di degenze in ospedale alternate a temporanee uscite. Così, Charlie e Sydney sono affidati alla Poor Law School di Hanwell, un orfanotrofio della periferia londinese e nel 1898 vanno ad abitare con il padre. Chaplin senior, intuendo il talento del figlio, lo inserisce nella sua compagnia di ragazzi, “The Eight Lancashire Lads” (“Gli otto ragazzi del Lancashire”): il 24 dicembre Charlie debutta sul palcoscenico al Royal Theatre di Manchester, girando l’Inghilterra in tournée nei due anni seguenti.

Nel 1901 Chaplin senior muore per cause legate all’alcolismo: Charlie lascia la compagnia per volontà di sua madre – uscita temporaneamente d’ospedale – e vive alla giornata nelle vie del suo quartiere natale («Avevo fatto lo strillone, il tipografo, il fabbricante di giocattoli, il soffiatore di vetro, l’usciere ecc., ma durante queste digressioni professionali, come Sydney, non avevo mai perso di vista il mio vero scopo, che era di diventare attore»). Due anni dopo, quando Hannah deve essere di nuovo ricoverata, Charlie torna definitivamente a lavorare come artista di music-hall, iniziando una serie di fortunate tournées. È il 1908 quando Sydney, ormai attore affermato degli “Speechless Comedians” (“I comici muti”) di Frederick Westcott (noto come Fred Karno), il più importante impresario di music-hall del Paese, coinvolge nella compagnia il fratello minore, il quale diventa in breve il nome di punta degli spettacoli firmati Karno. Nel 1910 parte per una prima tournée di 21 mesi negli Stati Uniti con una compagnia di Karno, replicandola due anni dopo. Nell’autunno del 1913 la Keystone, una compagnia cinematografica di Los Angeles, gli offre un contratto di 150 dollari a settimana, il doppio di Karno: per Charlie, oltre che l’inizio di una nuova carriera, è l’incontro con un mondo governato dalla rapidità e dall’improvvisazione per poter soddisfare le continue richieste del pubblico: la produzione dei film più semplici non richiede che poche ore!

Nel 1914, in occasione del suo secondo film, La strana avventura di Mabel, Charlie diventa “Charlot, the Little Tramp”, il vagabondo con bombetta, baffi, giacca attillata, pantaloni larghi, canna di bambù e scarpe grosse, personaggio inaugurato con la gag Charlot si distingue (girata in 15 minuti). Le 35 ulteriori pellicole girate durante il resto dell’anno contribuiscono a precisare la fisionomia di Charlot, mentre a partire dal mese di giugno, Charlie diventa anche regista di tutti i suoi film: «A quei tempi i princìpi della regia erano semplici. Per le entrate e le uscite mi bastava distinguere tra la destra e la sinistra. Se alla fine di una scena si usciva da destra, nella scena successiva si entrava da sinistra; se si usciva di fronte alla macchina, si rientrava volgendole le spalle». Non gli ci vuole molto, grazie alla sua esperienza teatrale, per superare in ritmo e raffinatezza del racconto per immagini tutti i suoi colleghi. Se nel 1915 la compagnia Essanay lo strappa alla Keystone proponendogli un contratto di 1.250 dollari a settimana, proprio nel periodo in cui Charlie comincia a costituire intorno a sé una personale e fidata squadra di attori e tecnici, l’anno successivo firma un contratto con la Mutual Film Corporation che gli offre uno stipendio annuo di 170.000 dollari e uno studio tutto suo. Nel 1917 arriva il contratto con il First National Exhibitors’ Circuit, sulla base di un milione di dollari: Charlie diventa produttore delle proprie pellicole mentre la società si fa carico della loro distribuzione. Nel febbraio 1919 Charlie Chaplin, Mary Pickford, Douglas Fairbanks e il regista David Wark Griffith fondano la United Artists Film Corporation, la famosa casa di produzione che sopravvivrà per poco più di sessant’anni, cioè fino a quando verrà spinta sull’orlo del fallimento dalla disastrosa avventura produttiva – linciaggio mediatico incluso – legata a I cancelli del cielo (Heaven’s Gate, 1980) di Michael Cimino.

Gli anni Venti vedono esordire Chaplin nel lungometraggio: nel 1921 esce Il monello, da molti considerato il suo capolavoro assoluto; nel 1923 dirige La donna di Parigi, sua prima pellicola drammatica che, pur non raccogliendo il successo di pubblico dei precedenti, avrà grande influenza sulla commedia hollywoodiana per la sua sobrietà e il suo realismo; del 1925 è invece il già citato La febbre dell’oro, uno dei suoi più grandi successi di critica e di pubblico. Il 1928 vede l’uscita de Il circo, che vince un Oscar speciale alla prima edizione degli Academy Awards, e Chaplin lanciarsi nella produzione di un altro film muto, nonostante l’industria del cinema si stia ormai convertendo al sonoro: nel 1931, dopo una lavorazione durata più di due anni, arriva nelle sale Luci della città e Chaplin parte per un tour mondiale al seguito del suo film rientrando a Hollywood solo nel giugno 1932. L’anno seguente inizia la lavorazione di Tempi moderni, che continua fino al 1935. Il film, che esce nel 1936, rappresenta l’ultima pellicola muta girata a Hollywood anche se alcune delle sequenze sono sonorizzate: tra queste, la più celebre, è quella finale dove si ascolta per la prima (e unica) volta la voce di Charlot, alla sua ultima apparizione sul grande schermo. Nel 1938, dopo aver accantonato definitivamente il progetto di una pellicola su Napoleone – lavora nel corso degli anni Trenta a ben due diverse sceneggiature, pronto anche a recitare la parte principale –, Chaplin inizia la produzione de Il grande dittatore, che si prolunga per tutto l’anno seguente. Il film, la sua prima opera parlata, esce nell’ottobre 1940, a guerra ormai in corso in Europa.

Nel 1946 partono le riprese di Monsieur Verdoux, che esce l’anno successivo, duramente attaccato dalla stampa: si tratta di una “commedia degli omicidi”, come afferma lui stesso, ispirata alla vita di Landru e basata “su un’idea originale di Orson Welles”. Due anni dopo Chaplin comincia a scrivere un romanzo mai dato alle stampe ma che diventa la storia di Luci della ribalta, un film di cui inizia le riprese nel 1951 – coinvolgendo gran parte della propria famiglia e, tra gli altri interpreti, Buster Keaton – e che esce nel 1952. Cogliendo l’occasione della prima del suo film in Europa, Chaplin parte per una vacanza con la famiglia. Mentre si trova in viaggio, il ministro della Giustizia gli vieta il rientro per ragioni di “moralità, salute pubblica, follia, propaganda a favore del comunismo o associazione con organizzazioni comuniste” fino a quando non provi la sua “idoneità” ai funzionari dell’immigrazione: una disposizione che lo allontanerà per sempre dagli Stati Uniti: «Il mio più grande peccato fu […] quello di essere un anticonformista. Pur non essendo comunista, mi rifiutai di allinearmi con coloro che li odiavano. Questo atteggiamento, si capisce, ha offeso molta gente».

L’anno dopo Chaplin e la sua famiglia si trasferiscono in Svizzera, dove acquistano il castello di Ban a Corsier-sur-Vevey, nel cantone di Ginevra. Nel 1956 iniziano a Londra le riprese di Un re a New York, che esce l’anno successivo in Europa e solo una ventina d’anni dopo negli Stati Uniti. Nel 1959 comincia invece a lavorare ad un libro sulla sua vita, che vede la luce nel 1964: La mia autobiografia sorprende critica e lettori per la precisione fotografica della memoria del suo autore. Due anni dopo Chaplin, riprendendo un vecchio progetto degli anni Trenta, inizia le riprese di La contessa di Hong Kong, che nel 1967 esce a Londra: è la sua prima pellicola a colori e in cinemascope, interpretata da Marlon Brando e Sofia Loren. Ma ormai la salute lo sta abbandonando, non riuscendo più a camminare da solo. Nel maggio 1971 il XXIV Festival Internazionale del Cinema di Cannes lo gratifica con un premio speciale alla carriera mentre la sera del 10 aprile 1972, ricevuto finalmente il “perdono” statunitense, è a Los Angeles per ricevere il premio Oscar alla carriera «per l’incalcolabile contributo dato alla trasformazione del cinema nell’arte del nostro secolo». L’ultimo dei tanti riconoscimenti ufficiali di questo periodo è del 1975, quando viene nominato Baronetto della Corona dalla regina Elisabetta II: ottant’anni dopo il suo esordio sulle tavole di un palcoscenico, Charlie Chaplin muore infatti nel sonno nel suo maniero svizzero il giorno di Natale del 1977, lasciando ai posteri un’eredità gigantesca.

Intervistato dalla rivista “Life” nel marzo 1967, un Chaplin a fine carriera aveva riaffermato a suo modo la centralità dell’attore, dell’uomo, del volto umano:

«La cosa più importante è un primo piano quando qualcuno sorride o guarda qualcun altro, ed è autentico ed è la fine del mondo e l’inizio di tutto. E io combatto anche contro questa idea moderna secondo cui, se si fa un primo piano, per questioni drammatiche bisogna farne un altro che lo bilanci. E allora si bilancia – con gente che parla, bla bla bla – ed ecco che il primo piano perde la sua enfasi. Diavolo, di infilarsi su per il naso di un attore sono capaci tutti. Ma quella roba è troppo facile. Mi piace tantissimo recitare e non voglio che sia la cinepresa a fare l’interpretazione. Il fatto è che il primo piano non mi è mai piaciuto molto, tranne che per i momenti molto importanti di enfasi e di intimità. Credo che sia perché le mie prime esperienze in teatro mi hanno portato a considerare l’obiettivo della cinepresa come un piccolo proscenio, in tutti i miei film. Mi piace la coreografia dei movimenti a teatro: il senso delle distanze, il tempismo delle entrate a effetto. Se ho una regola, è che mi piace mettere al primo posto l’orientamento – cioè piazzare la cinepresa molto indietro – per capire dove ti trovi, per lasciare più aria, in modo che la scena non sia opprimente».

Cinque anni più tardi, nella primavera del 1972, la rivista “Sight and Sound” riportava quasi in proposito la “lezione” di un ormai consacrato cineasta quarantaquattrenne:

«Se qualcosa sta realmente accadendo sullo schermo, non è decisivo come sia ripresa. Chaplin aveva uno stile cinematografico semplice e quasi banale, ma si era sempre ipnotizzati da quel che stava succedendo, indipendentemente dallo stile poco filmico. Spesso usava set scadenti, illuminazioni standard e così via, ma ha fatto dei grandi film, che dureranno probabilmente più di quelli di chiunque altro. […] Chiunque si interessi alla regia dovrebbe studiare insieme, e comparare Chaplin e Eisenstein. Dovendo scegliere tra i due, personalmente preferirei Chaplin».

Parola di Stanley Kubrick, altra chiave di volta del Ventesimo secolo in pellicola. Di genio in genio, davanti e/o dietro l’occhio della macchina da presa.

(Leonardo Locatelli)