«Show me how to see things the way you do», «Insegnami a vedere le cose come le vedi tu»: questa la preghiera – per qualcuno la farneticazione – che sentiamo uscire ad un certo punto dalla bocca del sergente McCron (John Savage), uno dei soldati che popolano e vengono “ascoltati” all’interno del corale La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998, Terrence Malick), un war movie atipico, dalla «monumentalità lirica» (Enrico Ghezzi), salutato alla sua uscita come «l’atto di umanità più imponente degli ultimi vent’anni».

«Un film è il riflesso dell’intera cultura dell’uomo che lo fa; la sua educazione, la sua conoscenza degli uomini, il respiro più o meno ampio della sua comprensione, tutto questo informa il film. […] Il regista cinematografico deve restare una figura lievemente ambigua, dopo tutto, perché tanta parte di quel che firma col suo nome viene da altri, e tante delle sue cose migliori da puri incidenti ai quali presiede. O dalla fortuna che si ha. O dalla grazia»: sulla scorta di una dichiarazione dell’amato Orson Welles, da un certo, fortunato momento in avanti, dentro quella forma di comunicazione che è un’opera cinematografica, messo di fronte a occasioni particolarmente preziose – il che non vuol dire necessariamente “gradevoli” –, chi scrive si è scoperto talvolta a sussurrare segretamente nel buio della sala frasi della medesima natura di quella citata in apertura, come per una sorta di “compagnia” che gli fosse stata offerta dalla bellezza che emanava il racconto per immagini, parole, suoni e musica cui aveva appena assistito, spettatore, come altri spettatori, cui era magari capitato di riflettersi, riconoscersi e vedersi descritto nei propri tratti essenziali dall’opera di cui stavano scorrendo i titoli di coda, novello Ulisse ospite nel palazzo di Alcinoo, come tutti in ascolto del canto dell’aedo Demodoco e commosso alle lacrime da una storia che lo raccontava così da vicino.

Segreti movimenti del cuore e potenti sensazioni dell’animo che regala l’intera filmografia di Terrence Malick, che ricordiamo a trent’anni da quel 9 aprile 1979, serata che consacra Michael Cimino come miglior regista e Il Cacciatore come miglior film e nella quale il direttore della fotografia spagnolo Nestor Almendros (abituale operatore di François Truffaut) riceve il premio Oscar («Le immagini sono completo merito di Malick. Questo premio è suo») grazie al prodigioso lavoro dispiegato ne I giorni del cielo, opus malickiana n. 2 candidata ad altre quattro statuette, tra cui una per la musica di Ennio Morricone, il racconto dei “Days of Heaven” trascorsi da Bill, Abby e Linda prima come lavoratori stagionali e poi come ospiti del proprietario di una piantagione texana di inizio Novecento.

Di lì a nemmeno un mese il film viene presentato in concorso al XXXII Festival di Cannes, vincendo il premio per la migliore regia nell’edizione in cui la Palma d’Oro (ex aequo) va all’epocale Apocalypse Now di Francis Ford Coppola e all’inquietante Il tamburo di latta di Volker Schlöndorff, tratto dall’omonimo romanzo di Günter Grass e che l’anno successivo avrebbe dato alla Germania il suo primo Oscar per il miglior film straniero.

Nessuno però poteva immaginare allora che a questi due riconoscimenti al proprio lavoro sarebbero seguiti quasi venti anni di silenzio. Malick torna infatti a far parlare di sé solo nel 1995, quando a Hollywood si diffonde la notizia del suo ritorno dietro alla macchina da presa per La sottile linea rossa. Sono moltissimi gli attori, alcuni dei quali ormai consacrate “stelle” del cinema, che tentano di entrare nel cast e di lavorare con lui. Ma facciamo un passo indietro.

Nel 1975, dopo aver presentato la sua opera d’esordio, La rabbia giovane (Badlands, 1973), alla Mostra del Cinema di Venezia, Malick inizia a lavorare a I giorni del cielo con il supporto finanziario della Paramount ma il ruolo del protagonista è rifiutato da Jack Nicholson, Dustin Hoffman e dalla sua prima scelta, John Travolta, quest’ultimo perché già impegnato per La febbre del sabato sera. Così la parte di Bill va ad un trentenne, non ancora sex symbol, Richard Gere. Dal punto di vista visivo, l’autore decide di ispirarsi ai quadri di Johannes Vermeer e di Edward Hopper (“il Vermeer del XX secolo” come viene, guarda caso, definito), arrivando a convincere il già citato Almendros a girare tutte le sequenze a luce naturale con pellicola da 35mm ma stampata in 70mm (per rendere credibile la grandezza degli spazi filmati), privilegiando, alla ricerca della “golden light” (l’espressione è dello stesso Malick), il “momento magico”, cioè quella manciata di minuti a cavallo del tramonto, tra le 6 e le 8 di sera, e allungando così i tempi di lavorazione.

Riesce a portare a termine le riprese solo nel 1976, iniziando poi un lavoro di montaggio talmente laborioso e ricco di limature da rendere necessario l’inserimento di una voce narrante fuori campo, un espediente narrativo che è, tra l’altro, uno dei suoi marchi di fabbrica. Il film esce solo due anni dopo, nel settembre 1978, vincendo, oltre ai premi già menzionati, il New York Film Critics Award e il National Society of Film Critics Award, e venendo definito, almeno visivamente, come il film a colori più bello mai realizzato: afferma al proposito Martin Scorsese che «[o]gni fotogramma de I giorni del cielo andrebbe ingrandito ed appeso alla parete» mentre per Bruce Handy (“Time”) «[è] così liricamente bello e narrativamente ellittico che il suo cast […] si è visto rubare la scena da un campo di grano.

Può sembrare una critica al film ma è in verità un tributo al placido, meditativo potere dei suoi momenti migliori, della sua preoccupazione per le verità del mondo naturale».

I giorni del cielo è introdotto da una serie di fotografie di carattere sociale di inizio Novecento, commentata dal sognante arpeggio del pianoforte del brano Acquario tratto da Il Carnevale degli animali (1886) di Camille Saint-Saëns e chiusa dalla foto in bianco e nero della solitaria e smarrita Linda – voce narrante della storia – mostrata accovacciata al bordo di quello che sembra un vicolo urbano di periferia.

La vicenda vera e propria ha inizio tra le ciminiere e i luridi anfratti di una città industriale qual è la Chicago del 1916, dove Bill, operaio in una fonderia, finisce per uccidere (sembra involontariamente) il sorvegliante dopo un diverbio le cui vere ragioni non sono però rintracciabili, in quanto tutta la sequenza è quasi interamente coperta dai rumori della fabbrica e intervallata da inquadrature degli altiforni che continuano la loro attività. Ad ogni modo vediamo Bill prima lasciare la fabbrica e poi in una stanza con la sorella minore Linda, appunto, e con Abby, la sua ragazza («Ho dovuto farlo. Le cose non andranno sempre così. Tu mi credi, vero?»). Iniziano quindi le note di Enderlin, un brano per chitarra di Leo Kottke, mentre i tre corrono verso una serie di vagoni merci ferma in una stazione ferroviaria, con la voce di Linda che ci spiega come «[u]n giorno siamo partiti tutti e tre. Non sapevamo dove andavamo. Volevamo trovare un posto dove vivere. Andavamo in cerca di avventure» («Di fatto tutti e tre andavamo in giro per posti, cercando cose… lanciandoci in avventure» nella versione in lingua originale).

L’inquadratura su cui terminano queste parole è una delle più famose di tutto il cinema di Malick: quella del treno in corsa ripreso contro un cielo immenso mentre sta attraversando un ponte, un’immagine che, unita alla colonna sonora e al racconto di Linda, trasmette davvero il brivido per qualcosa di imprevisto e di grande che ancora deve venire. Anche se nelle immagini immediatamente successive, che mostrano ancora il viaggio del treno e diversi piani dei suoi passeggeri, è un racconto dai toni apocalittici di un certo Ding Dong riportato in voce fuori campo dalla stessa Linda a metterci in guardia sul possibile, drammatico evolversi della vicenda.

Ogni volta quasi fosse la prima volta, ci avvince davvero l’ammirare come tutto il potenziale narrativo delle (poche) opere di Malick sia già racchiuso nelle sequenze da cui prendono avvio, dominate come sono da uno sguardo stupito, interrogativo per il reale e da un respiro ampio, potente e poetico per i personaggi, elementi naturali compresi, di cui si avverte la presenza fisica e non solo simbolica: se c’è un regista contemporaneo che sa far “recitare” la Natura, questo è proprio Terrence Malick.

Un’ammirazione che cresce con il passare dei minuti delle pellicole e delle stagioni cinematografiche, in paziente attesa del suo prossimo sguardo – per dirla con il sergente Welsh (Sean Penn) de La sottile linea rossa – su “questo grande sasso” che è il mondo.

Anche perché, come si è scritto sulle colonne del settimanale “Newsweek” in occasione dell’uscita della sua ultima fatica cinematografica, The New World – Il nuovo mondo (2005), «gli altri fanno film, Malick erige cattedrali».

(Leonardo Locatelli)