Gran Torino – «Walt Kowalski una volta mi ha detto che non conoscevo nulla della vita e della morte, perché io ero un “ventisettenne vergine imbottito di letture che gode a tenere le mani a vecchie signore superstiziose alle quali promette l’eternità”. Walt non aveva certo problemi a dire pane al pane. Ma aveva ragione: io non sapevo davvero niente della vita e della morte. Finché non ho conosciuto Walt: ho imparato da lui». A parlare, dal grande schermo, è un giovane prete cattolico alle prime armi. Uno che avrebbe ben più che una bella storia da raccontare a chi gli capitasse di incontrare. Innanzitutto perché, dentro un certo rapporto e da un certo punto in avanti, qualcosa è decisamente cambiato. Lui per primo, anche se, a dire il vero, in ordine di tempo, lui è solo il secondo…
“La conoscenza è sempre un avvenimento”? Chi desidera confrontarsi a 360° con la “provocazione” lanciata dal titolo del XXX “Meeting per l’amicizia fra i popoli” in corso alla Fiera di Rimini avrà – da visitatore – un’occasione in più per farlo, anzi per recuperare.
L’appuntamento è per stasera alle ore 21:45 per la proiezione di Gran Torino (2008, 111’), ultima pellicola diretta ed interpretata dal prolifico e inossidabile Clint Eastwood (79 anni lo scorso 31 maggio) che quanto alla questione della “conoscenza” rappresenta certo un bel percorso. L’autore stesso aveva già messo tutti sull’avviso alla sua uscita: «Questo è il mio film più piccolo ma anche il più personale». E, per sua stessa ammissione, è anche la sua ultima prova da attore. Quindi occhi e orecchie aperti davanti a questa storia di ferite (apparentemente) non rimarginabili; di peccati (ostinatamente considerati) non confessabili o perdonabili («La cosa che tormenta di più un uomo è quella che non gli hanno ordinato di fare»); di sorprendenti esperienze e rapporti a fronte di rancorosi pregiudizi; di inattese responsabilità (chi di padre, chi di figlio) cui “rispondere” per (ri)scoprire il proprio vero volto e far (ri)fiorire quanto sta intorno.
«Era una giovane donna attraente e non senza prospettive. Per cui fu penoso per sua madre quando decise di contrarre matrimonio con William Munny, un noto ladro ed assassino, un uomo conosciuto per la famigerata brutalità e sregolatezza del suo temperamento. Quando morì, non fu per sua mano – come sua madre avrebbe potuto immaginare – ma per il vaiolo». «Qualche anno più tardi, la signora Ansonia Feathers compì il difficile viaggio verso la Contea di Hodgeman per visitare l’ultimo posto dove riposava la sua unica figlia. […] E non c’era segnalato nulla che potesse spiegare alla signora Feathers perché la sua unica figlia avesse sposato un noto ladro ed assassino, un uomo conosciuto per la famigerata brutalità e sregolatezza del suo temperamento».
Queste la didascalia iniziale e finale de Gli spietati (Unforgiven, 1992), la dolente pellicola che – anche grazie al grandissimo successo di pubblico e ai diversi premi conquistati, tra i quali gli Academy Awards per il miglior film e la miglior regia – rappresentò la consacrazione di Eastwood come Autore.
«Ciò che rende questo western diverso dagli altri che ho girato in passato [la sua prima regia è del 1971, ndr], mi sembra, è il fatto che tratta della violenza e delle sue conseguenze. Prima, nei miei film, c’era molta gente che veniva uccisa gratuitamente; qui nessuna violenza viene perpetrata senza che non ne seguano delle conseguenze». Un’affermazione che, fatte le dovute proporzioni, descrive anche l’evolversi delle situazioni e la catena degli eventi così come raccontati in Gran Torino. Ma stavolta, a differenza di quasi vent’anni fa (e della signora citata in didascalia), noi siamo resi coscienti spettatori del miracolo di un avvenimento e della dinamica di un cambiamento.
Niente più solitari unforgiven che si allontanano con le mani sporche di sangue altrui sotto la pioggia battente, bandiera statunitense bene in vista – pensiamo alla lapidaria, desolante (e desolata) conclusione di quel film («Non me lo merito, morire in questo modo. Stavo costruendo una casa» «I meriti non c’entrano in questa storia» «Ci vediamo all’inferno, William Munny» «Già»): il grande schermo si illumina per proporci il racconto di un uomo, una persona che – pur con tutto il suo carico di contraddizioni – sentiamo “una”, non frammentata, che lascia il segno, dicendo “io” e “mio” quando parla di chi è e di quello che la tiene in piedi, qualcosa simbolicamente rappresentato dalla Ford Gran Torino Sport del 1972 che dà il nome al film.
Un punto di approdo, l’ultimo in ordine di tempo, di un regista certo alle prese con una propria personalissima evoluzione di uomo e di autore, caratterizzata dalla continua messa a fuoco di tematiche e prospettive “universali” (cioè ultimamente interessanti per tutti). “La conoscenza è sempre un avvenimento”… buona visione!
(Leonardo Locatelli)