Katyn – Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i rigorosi, potenti, “magistrali” 113 minuti di Katyn (2007) – in programma stasera alle ore 21:45 all’interno della XXX edizione del “Meeting per l’amicizia fra i popoli” in corso presso gli spazi della Fiera di Rimini – sono stati realizzati dal prolifico sceneggiatore e regista polacco Andrzej Wajda (classe 1926, premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera) attingendo a diari, lettere, confessioni e analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi, inglesi e relativi a quello che in patria è tutt’ora considerato il più tragico lutto nazionale. Non stupiscano quindi la lucidità e la pulizia non solo formali che caratterizzano questo film, nel quale è la Storia a fare capolino.



La pellicola ruota infatti attorno al massacro – avvenuto nella primavera del 1940 nel tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese – di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi (tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej) fatti prigionieri dall’Armata Rossa al momento dell’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht. Decine di migliaia di persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia.



Quanti questa sera, raccogliendo l’invito degli organizzatori del Meeting di Rimini, saranno davanti al grande schermo, sappiano che quelle che li dividono dall’Agnus Dei composto da Krzysztof Penderecki – sconvolgente chiusura, su schermo nero, del film – sono poco meno di due ore di grande cinema. E non è per un modo di dire. «Meditate che questo è stato»: davanti all’opera di Wajda viene alla mente un passo dell’epigrafe che apre Se questo è un uomo di Primo Levi, anche perché questo racconto per immagini emerge – letteralmente – dalla nebbia, che non è solo quella dei libri di Storia.



Eppure, nonostante la palese bestialità, atrocità della vicenda che sta alla sua base, Katyn non è il prodotto partorito con spirito vendicativo o astio ideologico dal figlio di una delle vittime. È tutt’altro, è sorprendentemente tutt’altro: Katyn è un’opera corale sull’accadere, sul porsi di un fatto, sulla verità di questo fatto e sul rapporto di ciascuno (e della sua libertà) con la verità di questo fatto. Verità che durante il film vedremo negata, distorta o sminuita dal Potere, Potere inteso come affermazione di un’idea sulla realtà, cioè su quel che è accaduto.

Come ogni forma d’arte che valga questo nome, la pellicola in programma questa sera è una forma di incontro: dietro quei 113 minuti c’è – ultimamente – qualcuno che chiede la nostra attenzione, la nostra pazienza. Meglio, la carità della nostra attenzione e della nostra pazienza. Per stare ad ascoltare quello che ha da dire, per stare a vedere quello che ha da mostrare. E, come sempre, c’è più di un modo di “entrare” nel racconto: l’immedesimazione con uno dei personaggi, l’emozione per una certa sequenza, il moto d’animo per una delle figure di contorno…

Va detto che – almeno come esposizione temporale, cronologica dei fatti – il film è costruito in modo non immediato: Katyn abbraccia più storie personali e più personaggi lungo un periodo di circa sei anni che va dal settembre/novembre 1939 al 1945. Non ci si faccia dunque spaventare dalle frequenti didascalie che lo scandiscono (17 settembre 1939, novembre 1939, primavera 1940, 13 aprile 1943, 1945, …) così come dalla presenza dei non pochi personaggi che lo animano (il capitano, il sott’ufficiale, il generale, l’ingegnere che progetta aerei, la moglie del capitano, la moglie e la figlia del generale, la sorella – anzi le sorelle – dell’ingegnere, …).

Nel fare presente questo eventuale elemento di fatica, invitiamo quanti vorranno accostarsi alla visione del film a chiedere innanzitutto per sé la libertà, il coraggio di lasciarsi sfidare dal suo contenuto, il coraggio di lasciar emergere una domanda – anzi la domanda – sull’origine, sull’identità, sulla consistenza della speranza che anima i personaggi – donne e uomini; mogli, mariti e figli; fratelli e sorelle; civili e soldati (già, i “soldati”…) – che vedranno raccontati sul grande schermo. Pensiamo soprattutto ai quindici minuti finali, chiusi dall’Agnus Dei di cui già si diceva. Fosse solo per il balenare, l’emergere dei contorni di questa domanda, avremmo già di che ringraziare l’ottantatreenne regista. E nel provare a rispondere, “meditiamo che questo è stato”.

Buona visione.

(Leonardo Locatelli)