Continua “Due passi al cinema”, la serie di articoli dedicati a quanti, nel recuperare in questa lunga estate calda i titoli della stagione cinematografica appena conclusa, cercano o si imbattono in spunti e “occasioni” per addentrarsi nei meandri di quella appassionante galleria di racconti e di uomini – e di racconti di uomini – che è la storia del cinema, sul filo delle associazioni di idee, delle assonanze di temi o delle semplici suggestioni dei suoi corsi e ricorsi.

«Quando sono con te, so una cosa che dimentico quando sono via» afferma il soldato inglese John Smith in compagnia della principessa indigena Pocahontas (anche se, durante l’intero film, questo nome non viene mai usato), incontrata dopo il suo sbarco nella Virginia del 1607 e della quale è innamorato. «Troverò gioia in tutto ciò che vedo?» si domanda la stessa principessa, la futura Rebecca (come verrà in effetti battezzata), al momento di fronteggiare le prime difficoltà di adattamento allo stile di vita e agli usi civilizzati nell’avamposto inglese di Jamestown. «Lei intesse tutte le cose. L’ho toccata tanto tempo fa senza conoscere il suo nome»: così viene descritta la giovane donna da John Rolfe, coltivatore di tabacco che sembra avere trovato la propria fortuna e la compagna della sua vita, rispettivamente, nella colonia della Virginia e in Rebecca.

Queste tre figure sono i due personaggi maschili principali e la protagonista (e vero soggetto di sguardo) delle due ore e mezzo scarse (almeno nella prima, magnifica versione editata) di The New World – Il nuovo mondo, pensato già a partire dagli anni Settanta, uscito nelle sale statunitensi la domenica di Natale del 2005 e firmato dal sempre più sorprendente Terrence Malick.

Una pellicola splendida e per certi versi radicale – un deciso e coraggioso superamento dell’opera precedente, La sottile linea rossa (The Thin Red Line, 1998) – in cui l’iniziale incontro di due civiltà e le sequenze finali (che non rappresentano altro che un nuovo inizio) sono commentati solo dalle note wagneriane del Preludio de L’Oro del Reno, con i corni e gli archi a segnare il maestoso mormorio del grande fiume tedesco, mentre gli incontri tra Smith e la sua amata principessa sono segnalati da quelle, dolenti e meditanti, dell’Adagio del Concerto per pianoforte e orchestra n. 23 (K. 488) di Mozart.

Sorprende scoprire come in The New World – Il nuovo mondo quella dispiegata davanti agli occhi dello spettatore sia una “storia d’amore” la cui dinamica ha a che fare con quella altrettanto semplice (e molte volte data per scontata) messa in moto in ogni persona durante il processo della conoscenza, quando cioè ci si imbatte per la prima volta in ciò che ci circonda.

Per questo motivo merita una più estesa trattazione la dinamica e la natura del legame che nasce tra il colono inglese Smith e la principessa indigena Pocahontas. Nelle sequenze dedicate alla vita nel villaggio dei Powhatan, proprio mentre l’idillio tra i due sta per avere inizio, c’è una breve inquadratura in prospettiva frontale in cui si vede il primo seguire la seconda, che, sentendosi osservata ma non osando voltarsi, tradisce con lo sguardo la propria emozione: anche lei infatti era stata mostrata poco prima cercare quello straniero cui aveva salvato la vita al suo arrivo da prigioniero al villaggio.

Viene poi il vero e proprio cuore di questa sequenza (e punto più definitivo del loro rapporto, alla stregua di un matrimonio) quando la voce fuori campo di Smith tenta di dar conto di ciò che sta accadendo: «L’amore. Lo negheremo quando verrà a trovarci? Non prenderemo ciò che ci viene dato? C’è solo questo. Tutto il resto è irreale». Subito dopo le sue ultime parole sentiamo tornare per la seconda volta i corni e gli archi del Preludio di Wagner, che, come già scritto, commentano unicamente i “nuovi inizi” del film, vale a dire l’incipit e il finale.

E su queste note è la ragazza a dare voce al rapporto che stiamo vedendo nascere: «Madre, dove vivi? Nel cielo? Nelle nuvole? Nel mare? Mostrami il tuo volto. Dammi un segno. Noi sorgiamo. Sorgiamo. Ho paura di me stessa. Un dio lui mi sembra. Cos’altro è la vita, se non starti accanto? Oh, essere data a te. Tu a me. Io ti sarò fedele, sincera. Due non più. Uno. Uno. Io sono. Io sono».

Da questo punto in avanti, quella dei due sarà una storia di progressivi distacco e incomprensione, per via dell’allontanamento di Smith, della sua incapacità di stare davanti a Pocahontas e di sostenere la natura del rapporto che gli si offre: «Dirglielo. Dirle cosa? È stato un sogno. Ora sono sveglio. Ho lasciato che mi amasse. Ho fatto sì che mi amasse. Devo. La dannazione è così» sono le sue parole rientrato all’avamposto inglese. Quando si rivedono, in occasione della provvidenziale visita invernale di alcuni Powhatan, è un altro uomo quello che indugia davanti a lei («Non fidarti di me. Tu non sai chi sono»), situazione che sostanzialmente non cambia nemmeno quando la ragazza raggiunge definitivamente i coloni («Tu mi conoscevi com’ero tempo fa. Non sono mai stato l’uomo che ti sembro essere»).

Cosicché la ripartenza di Smith da Jamestown e la (falsa) notizia della sua morte pare arrivare ad intaccare non solo la più forte e fedele nel vivere e riconoscere il bene di questo legame ma anche la stessa essenza di ciò che è stato descritto («Te ne sei andato, con la mia vita. Hai ucciso il dio in me»). Il tutto pare ultimamente concludersi in quella cenere che Pocahontas si cosparge sul volto in segno di lutto e in cui finiscono anche le capanne dei Powhatan, bruciate dagli inglesi.

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(Leonardo Locatelli)