Continua “Due passi al cinema”, la serie di articoli dedicati a quanti, nel recuperare in questa lunga estate calda i titoli della stagione cinematografica appena conclusa, cercano o si imbattono in spunti e “occasioni” per addentrarsi nei meandri di quella appassionante galleria di racconti e di uomini – e di racconti di uomini – che è la storia del cinema, sul filo delle associazioni di idee, delle assonanze di temi o delle semplici suggestioni dei suoi corsi e ricorsi.

In quella che possiamo definire la seconda, grande sezione narrativa di The New World – Il nuovo mondo, l’inizio del rapporto con un altro John, il coltivatore di tabacco Rolfe, è motivo di un ennesimo nuovo inizio, che ripropone, approfondendoli, alcuni degli aspetti già incontrati nella prima, perché ora è Rebecca (come è ormai stata battezzata) che si dimostra in difficoltà, segnata dal rapporto precedente e incerta di quello le è chiesto di fronte a quello che sta vivendo.

Da questa condizione si arriva comunque al matrimonio con Rolfe («Madre, perché non riesco a sentirmi come dovrei? Devo. Falsa una volta, non devo esserlo di nuovo. Strappati la spina. Lui è come un albero. Mi dà riparo. Giaccio nella sua ombra. Posso ignorare il mio cuore? Cosa viene da te e cosa no?») e alla nascita di Thomas («Madre, il tuo amore è innanzi ai miei occhi. Mostrami la tua strada. Insegnami i tuoi sentieri. Donami… un cuore umile»).

Colpisce come la successiva scoperta della verità circa il destino del suo primo amore coincida, pur nella situazione venutasi a creare, in Rebecca con il riemergere di antiche verità («Sono sposata… a lui») e soprattutto in Rolfe con l’affiorare di una nuova consapevolezza della natura del loro rapporto («Dolce moglie. L’amore ha creato il vincolo, l’amore può anche spezzarlo. Ci sono cose in lei che mai saprò»; «Nella mia vanità ho creduto di riuscire a farmi amare da te e nessuno può fare questo. O non dovrebbe»).

In terra inglese si assiste all’incontro con John Smith, durante il quale ci viene proposta, quasi a chiudere in maniera circolare la loro vicenda, un’inquadratura dei due che ricalca quella della sequenza nel villaggio indigeno: questa volta è ben altra l’espressione dipinta sul volto di Rebecca, quasi in lacrime, così come sono ben altri, più distaccati, più sospettosi, gli sguardi che quest’ultima lancia al compagno di un tempo, salvo poi, arrivati al commiato, avvertire che il suo augurio – «Hai trovato le tue Indie, John? Le troverai» – ha sia valore di addio che di ringraziamento, anticipando la tardiva (e definitiva?) ammissione di Smith («Forse le ho superate. […] Credevo fosse un sogno ciò che sapevamo nella foresta. È l’unica verità. È come se ti stessi parlando per la prima volta»).

Appare evidente come il ritorno tra le braccia di Rolfe («Marito mio») non sia un ripiego socialmente appropriato o una decisione di pura convenienza di qualcuno ormai intaccato dalla mentalità e dagli usi occidentali, ma un atto di libertà vera, la ragionevole affermazione di un bene più pieno, innanzitutto per sé, un’adesione a una verità più grande che compie anche quanto vissuto ed espresso nel legame con Smith.

Ragione per la quale resta assolutamente intatta ad ogni visione l’emozione proprio per gli ultimi quindici minuti del film, coincidenti con il viaggio in Inghilterra della protagonista, dove possiamo vedere a confronto lo sguardo di Rebecca e quello di suo zio Opechancanough.

Se il secondo attraversa gli spazi inglesi – pensiamo soprattutto alla sequenza del giardino, con le sue rigide geometrie – con lo stesso sbigottimento, spaesamento degli astronauti di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968, di Stanley Kubrick) davanti al monolite, ecco invece la prima, nelle sequenze finali che seguono l’incontro con Smith, correre e giocare completamente a suo agio con suo figlio Thomas in un ambiente quasi simile.

Esemplari, a questo proposito, sono le due inquadrature di Rebecca poco prima il terzo (ed ultimo) erompere del Preludio di Wagner, che accompagna gli ultimissimi minuti dell’opera: prima guardando suo marito John Rolfe e suo figlio giocare su uno spiazzo erboso e poi abbracciando Thomas, la protagonista viene ripresa con una costruzione, una casa alle spalle, quasi a rafforzare l’idea di familiarità che Rebecca sta esplicitando proprio in quegli stessi istanti («Madre, ora so dove vivi»), mentre Thomas corre intorno a una piccola meridiana, con la stessa casa sullo sfondo, e poco prima che lei stessa esca definitivamente dalla scena.

Di lì a poco – nelle inquadrature immediatamente successive a quelle del letto di morte, mostrato prima con Rebecca e poi vuoto e ben rifatto, e di un indigeno che, seduto in quella che sembra la stessa stanza, corre poi improvvisamente fuori, all’aperto – la vediamo sorridere e saltare, ancora in un giardino, anche se meno geometrico dei due precedenti, a piedi nudi ma pur stretta in abiti occidentali del medesimo genere di quelli indossati e portati inizialmente a fatica a Jamestown. Una provocante domanda sorge davanti a queste sequenze: e se il nuovo mondo non fosse né l’America vista da John Smith né l’Inghilterra vista da Opechancanough, ma Rebecca stessa e il suo sguardo sull’intera realtà?

Da ultimo, quest’opera suggerisce, come già accennato e non solo per l’uso combinato di sequenze pressoché mute e musica classica, una somiglianza con una pietra miliare della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, e pare proprio poter competere con le altezze che quel film raggiunge: gli accordi ascendenti dell’Also sprach Zarathustra di Richard Strauss sono ora i corni e gli archi, sempre ascendenti, di Richard Wagner e del suo Vorspiel mentre il personaggio del capitano John Smith è descritto quasi come un Ulisse del Seicento, un esploratore che lascia il noto – vero e attraente, nelle concrete sembianze della principessa indigena – per l’ignoto, alla ricerca di sé prima ancora che del passaggio verso l’altro oceano. Inoltre (e qui risiede la cifra definitiva del fascino di questo film) quelle domande, quel “mistero” – segnalato dal celebre monolite, Dio o entità aliena che fosse – che in Kubrick sono suggeriti in maniera più ambigua seppur di intatta suggestione visiva ed emozionale, in Malick emergono, pur in un montaggio che ricorda la rarefazione e l’astrazione di 2001, dentro la concretezza fisica di un rapporto io-tu, cioè come naturalmente sperimentabile da chiunque.

Con esiti “drammatici” e di coinvolgimento da parte dello spettatore ben diversi. Anche perché la già citata frase di Smith («Quando sono con te, so una cosa che dimentico quando sono via») resta applicabile all’esperienza affettiva (e quindi di conoscenza, di crescita) di ciascuno, e non limitata al solo pur privilegiato ambito del rapporto di coppia, cioè quella condizione nella e per la quale siamo spinti ad ammettere che io sono più io quando sono qui con te; che io conosco più cose di me, capisco più me stesso, chi sono io, stando davanti a te.

Qui non abbiamo più un monolite a segnare l’avanzamento della conoscenza umana ma una ragazza di quindici anni che rappresenta la purezza originale, una “verginità” innanzitutto come sguardo sulla realtà circostante.

La possibilità quindi di un “nuovo inizio” – come quello misteriosamente mendicato dal cinico, pragmatico sergente Welsh, “pezzo di ghiaccio” per sua stessa ammissione, lasciando l’isola di Guadalcanal al termine del già citato La sottile linea rossa («Se non ti incontrerò mai in questa vita, almeno che io senta la tua mancanza. Uno sguardo dei tuoi occhi e la mia vita sarà tua» sono le sue ultime parole) – e di una “modalità di guardare” più piena e definitiva, in qualche misura riaffermata dalla voce fuori campo proveniente direttamente dall’oltretomba e con la quale si chiude quello stesso film («Oh, anima mia, fa che io sia in te adesso. Guarda attraverso i miei occhi. Guarda le cose che hai creato. Tutto risplende»).

(2 di 2 – fine)

(Leonardo Locatelli)