Verso la fine degli anni Trenta, per poter costituire un’alternativa all’Esposizione Internazionale d’Arte Cinematografica (nata nel 1932 nell’ambito della XVIII Biennale di Venezia e dove le pellicole dell’Italia fascista e della Germania nazista avevano invariabilmente buon gioco), un gruppo di critici, intellettuali e uomini di cultura d’Oltralpe – tra cui Louis Lumière, inventore del cinematografo con il fratello Auguste – sottopose al proprio governo una richiesta per la creazione di una manifestazione più equilibrata. Il governo diede il via libera insieme al proprio sostegno e per ospitare questo appuntamento avanzarono la propria candidatura quattro città: Lucerna, Ostenda, Biarritz e… Cannes. La prima edizione del “Festival International du Film” avrebbe dovuto svolgersi dall’1 al 20 settembre 1939 ma venne annullata per l’invasione della Polonia e il conseguente scoppio della Seconda guerra mondiale. Solo dopo sette anni – il 20 settembre 1946 – si sarebbe tornati a parlare di cinema sulla Croisette mentre per lo spostamento dall’autunno alla primavera – per evitare la competizione diretta con la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica – si sarebbe dovuta attendere la quarta edizione della manifestazione (3-20 aprile 1951: quelle del 1948 e del 1950 non si tennero per problemi finanziari).
Proprio sessant’anni fa, nel settembre 1949, nell’ultimo Festival autunnale, venne presentata una delle pellicole più popolari e celebrate della storia del cinema, di quelle che emergono da imprevedibili alchimie frutto di autentici stati di grazia e impastate di un’aura che regge al trascorrere del tempo – come nel caso dell’esemplare, hollywoodiano Casablanca (1942, Michael Curtiz): stiamo parlando de Il terzo uomo (The Third Man, 1949), diretto da Carol Reed e interpretato da Jospeh Cotten, Alida Valli (citata con il solo cognome nei titoli di testa), Orson Welles (al suo unico ruolo recitato senza trucco) e Trevor Howard su sceneggiatura originale di Graham Greene (da lui poi trasferita in romanzo), con alle spalle due grandissimi e rinomati produttori quali l’inglese Alexander Korda e lo statunitense David O. Selznick, qui alla loro prima e ultima collaborazione, e attraversato dal popolarissimo motivo musicale suonato alla cetra da Anton Karas. Un film che a Cannes portò a casa il Gran Premio della giuria – la Palma d’Oro per il miglior film sarà infatti istituita solo dal 1955 – e l’anno successivo – in quanto distribuito negli Stati Uniti a partire dal febbraio 1950 – anche l’Oscar per la miglior fotografia assegnato all’operatore Robert Krasker. Reed invece, pur gratificato in quest’ultima occasione di una candidatura nella cinquina per il miglior regista – dove però prevalse Jospeh L. Mankiewicz per Eva contro Eva (All About Eve, 1950) –, vinse il Premio di categoria al New York Film Critic’s Award.
Fatto salvo il carisma (celebre la battuta sul Rinascimento italiano e gli orologi a cucù svizzeri) infuso nel personaggio di Harry Lime, affascinante quanto cinico contrabbandiere di penicillina adulterata, da Orson Welles – il quale era già da due anni impegnato nella preparazione e lavorazione del suo Otello (Othello, a sua volta presentato a Cannes nel 1952 e vincitore del Grand Prix), che stava finanziando di tasca propria attraverso partecipazioni in film altrui –, il film vive innanzitutto dell’atmosfera catturata dalla barocca, “wellesiana” appunto (a base di inquadrature “sghembe” e grandangoli), regia di Reed e dalla splendida fotografia in bianco e nero di Krasker nella Vienna del secondo Dopoguerra occupata dagli Alleati. Un’ambientazione, questa, scelta da Korda e che andava a modificare l’originale set londinese di Greene, il quale ha sempre sostenuto di avere sviluppato lo script da un misterioso incipit da lui scritto sul risvolto di una busta («Ho portato il mio estremo saluto a Harry la scorsa settimana, quando la sua bara è affondata nel terreno di questo gelido febbraio, così che non ho potuto credere ai miei occhi quando me lo sono visto passare vicino, senza che mostrasse, per alcun segno, di riconoscermi, in mezzo a una folla di sconosciuti, nello Strand»).
Come ha detto Enrico Ghezzi a proposito del film «è affascinante vedere, tra Welles e Cotten, il trapiantarsi di un pezzo del cinema meno classico hollywoodiano. Per l’appunto di Quarto potere, di Citizen Kane di Orson Welles, questo cinema non a caso così radiofonico, così dichiarato, parlato a sua volta, così sopra le righe, così ridetto, anche se forse il cinema è più vicino al cinema che viviamo oggi invece che all’implacabile automaticità hollywoodiana». Quell’automaticità scardinata (a caro prezzo) da un genio che, intervistato nel 1958 da André Bazin per i “Cahiers du Cinéma”, affermò: «Come sapete, nel vecchio teatro classico francese, c’erano sempre attori che interpretavano il re e attori che non lo interpretavano: io sono di quelli che fanno il re». Vedere per credere.

(Leonardo Locatelli)