Proprio mentre carta stampata e pagine web ci stanno preparando a dovere – con la consueta dovizia di particolari su tecniche, costi, incassi e via dicendo – allo sbarco del film da più parti presentato come uno spartiacque destinato a rivoluzionare il corso della storia della settima arte, ecco che piomba su prime pagine e home pages la notizia della scomparsa, all’età di quasi novant’anni, di Eric Rohmer, uno che (sono tra le sue rare parole da regista) «trascrive fedelmente la bellezza del mondo reale» dando precedenza ai dialoghi poiché «i personaggi esistono, quando si mettono a parlare».

Quarant’anni di carriera dietro la macchina da presa e venticinque pellicole all’attivo che vanno a costituire una filmografia per la maggior parte organizzata in tre cicli dai titoli che paiono evocare corpus letterari di un tempo che fu. Scorrendola, vi troviamo infatti i “Racconti morali” (“Contes moraux”), sei pellicole che trattano di un rapporto lui-lei improvvisamente incrinato dall’intervento di un’altra, storie caratterizzate dalla presenza di un narratore: La fornaia di Monceau (La boulangère de Monceau, 1962); La carriera di Suzanne (La carrière de Suzanne, 1963); La collezionista (La collectionneuse, 1966), suo primo successo di pubblico; La mia notte con Maud (Ma nuit chez Maud, 1969), considerato il suo capolavoro; Il ginocchio di Claire (Le genou de Claire, 1970) e L’amore il pomeriggio (L’amour l’après-midi, 1972). Dopo questa prima serie è la volta di due opere a se stanti: La marchesa von… (La marquise d’O…, 1976), adattamento dell’omonimo racconto di Heinrich von Kleist, recitato in tedesco antico da interpreti provenienti dal teatro ma girato in ambienti reali e vincitore del Premio della giuria al Festival di Cannes; seguito dopo due anni da Perceval (Perceval le gallois, 1978), adattato dal poema medievale di Chrétien de Troyes, realizzato all’interno di una scenografia stilizzata totalmente ricostruita in studio, recitato in ottonari e arricchito da musiche su strumenti dell’epoca.

Con gli anni Ottanta arrivano poi le “Commedie e proverbi” (“Comédies et proverbes”), legate – quanto alla struttura – al teatro classico e al tema della vita come gioco e caso: La moglie dell’aviatore (La femme de l’aviateur ou: On ne saurait penser à rien, 1980); Il bel matrimonio (Le beau mariage, 1982); Pauline alla spiaggia (Pauline à la plage, 1983), Orso d’argento al Festival di Berlino; Le notti della luna piena (Les nuits de la pleine lune, 1984); Il raggio verde (Le rayon vert, 1986), Leone d’oro, premio FIPRESCI, premio OCIC nonché premio Pasinetti a Marie Rivière quale miglior attrice alla Mostra di Venezia; L’amico della mia amica (L’ami de mon amie, 1987) e, da ultimo, Reinette e Mirabelle (Quatre aventures de Reinette et Mirabelle, 1987).

 

Degli anni Novanta sono infine i “Racconti delle quattro stagioni” (“Contes des quatre saisons”), commedie, sorrette da dialoghi intelligenti e brillanti che guardano ai grandi modelli di Marivaux e Beaumarchais, sul carattere ondivago degli affetti umani: Racconto di primavera (Conte de printemps, 1990) è il titolo che apre questa terza (e ultima) grande serie tra citazioni di Kant e musiche di Schumann e Beethoven, subito seguito l’anno successivo da Racconto d’inverno (Conte d’hiver, 1991), una storia di apparente ottimismo, con rimandi shakespeariani.

 

Dopo un’altra “pausa” dove riesce a realizzare due film, vale a dire L’albero, il sindaco e la mediateca (L’arbre, le maire et la médiathèque, 1993) e Incontri a Parigi (Les rendez-vous de Paris, 1995, a episodi), il regista prosegue il ciclo con Un ragazzo… tre ragazze (Conte d’été, 1996), attraversato da tematiche che ricordano da vicino quelle de Il raggio verde, la pellicola della consacrazione veneziana di dieci anni prima, e lo conclude con Racconto d’autunno (Conte d’automne, 1998), interpretato da due fidate attrici rohmeriane quali Béatrice Romand e Marie Rivière e premiato a Venezia con l’Osella d’oro per la sceneggiatura (anche se per molti era da Leone d’oro, assegnato quell’anno a Così ridevano del nostro Gianni Amelio).

 

Tre anni dopo l’affresco storico “digitale” de La nobildonna e il duca (L’Anglaise et le Duc, 2001) viene rifiutato da Cannes perché ritenuto reazionario e controrivoluzionario mentre per una parte della stampa transalpina Rohmer è un revisionista. Per tutta riposta, il fino ad allora invisibile cineasta si presenta a Venezia per ritirare il Leone d’oro alla carriera: «[N]on è un film contro la Rivoluzione francese. Caso mai è un film contro il fanatismo. Contro il pregiudizio. E poi non è nemmeno un film “contro”. Piuttosto, è un film su quel periodo preciso della Rivoluzione che fu il Terrore. Sui massacri ingiustificati che si verificarono tra il 1790 e il 1793, e sul totalitarismo che ne derivò».

 

Sempre di questo primissimo scorcio di XXI secolo, sono i suoi ultimi due film: Triple Agent – Agente speciale (Triple Agent, 2004) e Gli amori di Astrea e Celadon (Les amours d’Astrée et de Céladon, 2007).

 

«Se lo spettatore non avesse già trovato la bellezza nel mondo, come potrebbe cercarla nella sua immagine? Come potrebbe ammirare l’imitazione della vita se non ammirasse la vita? È la posizione del cineasta. Se io filmo una cosa, è perché la trovo bella: quindi vuol dire che nella natura esistono cose belle»: un promemoria rohmeriano per quanti affronteranno i 166 minuti di Avatar.