«Per decenni i film western hanno arricchito la realtà del West per renderla più interessante. Ma a metà degli anni Cinquanta molti film misero in questione il mito perpetuato da Hollywood. Arthur Penn, ad esempio, presentò Billy the Kid come un giovane delinquente in cerca di una figura paterna. Mettendo un giornalista a seguire l’intera carriera del giovane criminale, Penn suggeriva quanto la storia fosse distorta fin dall’inizio. Paul Newman interpretava Billy the Kid come un antieroe alla ricerca della propria morte. Non uno spietato assassino o un cordiale criminale: Billy era solo “un ribelle senza causa”. La rabbia e la confusione sono dovuti più a un malessere adolescenziale che iniziava a manifestarsi negli anni Cinquanta che alla realtà del vecchio West».

Con queste parole, all’interno del suo Viaggio nel cinema americano (A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies, 1995), Martin Scorsese descrive la ventata di assoluta novità portata nel genere cinematografico americano per eccellenza, il western, da Furia selvaggia (Billy the Kid) (The Left-Handed Gun, 1958), l’insolito e prezioso esordio dietro la macchina da presa – ispirato al teledramma The Death of Billy the Kid (1955) di Gore Vidal – di Arthur Penn, il brillante regista teatrale, televisivo e cinematografico statunitense morto lo scorso martedì notte, proprio il giorno dopo il suo ottantottesimo compleanno (era nato infatti il 27 settembre 1922 a Filadelfia da genitori ebrei di origine russa).

Un cineasta per ben tre volte – 1962, 1967 e 1969 – finito nella cinquina dei candidati all’Academy Award per la migliore regia e che solo tre anni e mezzo fa, il 15 febbraio 2007, è stato premiato al Filmfestspiele di Berlino con un Orso d’oro alla carriera (vale a dire una quindicina di pellicole in tutto, per restare alla sola attività cinematografica). Un grande amante della “Nouvelle Vague” di François Truffaut – di cui adorava l’opera prima, I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959), «così simile alla mia infanzia» – e Jean-Luc Godard che ha idealmente aperto la strada ad autori quali Dennis Hopper, Sam Peckinpah, Martin Scorsese, Robert Altman, Steven Spielberg, Terrence Malick, Francis Ford Coppola, Bob Rafelson e Hal Ashby.

Ma non solo: da regista televisivo è stato colui che ha consigliato all’allora candidato democratico alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy come comportarsi davanti alle telecamere durante il celebre confronto del 1960 con il più quotato candidato repubblicano Richard Milhous Nixon. Inutile ricordare come è andata a finire: ormai è tutto tramandato sui manuali non di cinema ma di storia e di scienze della comunicazione.

Per la sua seconda incursione sul grande schermo – a partire da un teledramma (1957) e da una pièce teatrale (1959) firmati entrambi da William Gibson – si è affidato a una vicenda da lui già diretta sia per la televisione che sulle tavole di Broadway: nel 1962 è stata infatti la volta di Anna dei miracoli (The Miracle Worker), ovvero «la descrizione epica di una battaglia che culmina nella straordinaria scena di 9 minuti tra Annie [Sullivan] e Helen [Keller] intorno al tavolo da pranzo [e] mette con furia l’accento sulla dimensione fisica della battaglia» (Morando Morandini).

PER CONTINUARE A LEGGERE L’ARTICOLO CLICCA IL PULSANTE >> QUI SOTTO

Nel 1967 usciva Gangster Story (Bonnie and Clyde), la storia di Bonnie Parker e Clyde Barrow, dove si mostravano per la prima volta gli effetti “speciali” delle pallottole sui corpi delle persone e che terminava con l’uccisione dei due fuorilegge crivellati di colpi durante un’imboscata, il tutto prima in un montaggio serrato e molto frammentato e poi in ralenti. Un film lanciato da uno slogan memorabile («They’re young. They’re in love. And they kill people») apparso quattro anni prima di quello legato all’Alex DeLarge kubrickiano («Being the adventures of a young man whose principal interests are rape, ultra-violence and Beethoven»).

 

Ecco come ne ha parlato lo stesso Penn: «Il vecchio sistema degli Studios si fondava sull’ipocrisia. C’era una paura costante di essere accusati di infondere nei giovani il fascino per l’illegalità ed è per questo che vennero stabilite norme. Ad esempio, nello stesso fotogramma non si poteva vedere contemporaneamente un colpo di pistola e colui che veniva colpito. Allora era assolutamente necessario un taglio intermedio. Quindi ho pensato che se decidevamo di farlo vedere, l’avremmo fatto come si doveva. Avremmo dovuto mostrare cosa succede quando qualcuno viene colpito. Il colpire qualcuno non rappresenta un fatto asettico: c’è un enorme quantità di sangue e di orrore, quando succede. E ci trovavamo in piena guerra del Vietnam. Quello che si vedeva in televisione era forse addirittura più carico di sangue di ciò che appariva nei film».

 

Nel 1970, a chiusura di un favoloso e irripetibile decennio creativo, ecco invece Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) – tratto dal romanzo di Thomas Berger, sceneggiato da Calder Willingham e interpretato da Dustin Hoffman – che, insieme a Soldato blu (Soldier Blue, 1970, Ralph Nelson), Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, 1970, Elliot Silverstein) e Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, 1972, Sydney Pollack), ha inaugurato la stagione del western filo-indiano, un tentativo in celluloide di raccontare il lato oscuro del mito della Frontiera, i cui echi arriveranno fino al celebrato e pluripremiato Balla coi lupi (Dances with Wolves, 1990, Kevin Costner).

 

Pur menzionando queste sole quattro opere, appare chiaro come chi ha smesso di ruggire fosse uno dei veri “leoni” di Hollywood.