«Una farfalla nera. L’ironia della sorte ha voluto che la farfalla nera di due baffi di identico formato si posasse sul labbro superiore di due uomini totalmente differenti. Uno dei due è una maschera, un’invenzione. L’altro è reale, fatto di carne e di sangue. Il primo è uno degli uomini più famosi del pianeta. Il secondo è senza dubbio il più odioso. “Mi ha rubato i baffi!” gridava allegramente Chaplin a mezzo stampa, accusando Hitler di plagio: “Sono io che ho avuto l’idea per primo!”. Hitler non aveva l’aria di essere qualcosa di diverso da un commediante, poco più di un pagliaccio: la battuta di Chaplin che lo accusava di furto ne faceva un clown grottesco.

Ma gli anni passavano e risultò che Hitler non era solo un buffone, un clown, un istrione, ma che era soprattutto un maniaco sanguinario. Allora Chaplin realizzò Il grande dittatore».

In questo frammento critico d’autore – chi scrive è infatti il regista sovietico Sergej M. Ejzenštejn – viene idealmente ripercorsa la genesi del più grande rischio personale (anche dal punto di vista finanziario) ed artistico preso da uno dei giganti della storia del cinema. E del suo più grande – e di certo non scontato, per il clima nel quale nasce l’opera – successo al botteghino, stimato in circa cinque milioni di dollari dell’epoca.

Un cammino trionfale cominciato in anteprima mondiale giusto settant’anni fa, il 15 ottobre 1940, in due sale cinematografiche di New York gremite di pubblico, tra cui fa capolino un folto numero di autorità politiche e di celebrità del mondo della cultura. Due mesi dopo, il 16 dicembre, la pellicola sarà proiettata in una Londra appena uscita dall’estenuante ma vittoriosa battaglia aerea d’Inghilterra contro le forze della Luftwaffe.

Un film che, volendo avere a che fare con la Storia, alla fine vi accede di diritto, «sicuramente non il migliore ma forse il più ricco» – a detta del teorico e critico del cinema Jean Mitry – emerso dalla meticolosissima genialità di Charles Spencer Chaplin: una produzione iniziata nel 1937 con una prima stesura dello script (tra i più particolareggiati di tutta la storia di Hollywood) di oltre trecento pagine suddivise in sequenze numerate e annotate (incluso ogni singolo movimento della celebre danza con il mappamondo) – alcune delle quali (ivi compresi i diversi finali alternativi) nemmeno girate – per 539 (!) giorni complessivi di riprese, terminate quando la Wehrmacht ha ormai in pugno l’intera Francia.

Il tutto avendo accarezzato subito dopo l’uscita di Tempi moderni (Modern Times, 1936) altri progetti poi scartati, tra i quali una vita di Napoleone in cui avrebbe ovviamente ricoperto il ruolo principale.
La storia è quella di un piccolo barbiere ebreo della Tomania che ha perso la memoria a causa delle ferite riportate sul fronte durante la Prima guerra mondiale e del terribile dittatore di stampo nazista, Adenoid Hynkel, che nel frattempo ha preso il potere nel Paese e di cui il primo è il perfetto sosia. Caratteristica, questa, che gli tornerà utile nel memorabile finale dell’opera.

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Come afferma Martin Scorsese, «nel suo primo film sonoro, Chaplin ebbe il coraggio di presentare i poteri fascisti in modo diretto: con il rischio di mandare su tutte le furie le forze isolazioniste americane, Chaplin sfidò da solo i dittatori. Il grande dittatore, una commedia basata su orrori di attualità come le persecuzioni razziali e i campi di concentramento, rappresentò per Chaplin un’altra sfida. Si assegnò un doppio ruolo: quello del mostro, il dittatore Hynkel, e quello della vittima, il barbiere ebreo».

In patria la pellicola arriva alla sera degli Academy Awards 1940, al Baltimore Hotel di Los Angeles il 27 febbraio 1941, forte di cinque candidature, anche se la partita si gioca tra le undici nominations di Rebecca la prima moglie (Rebecca, 1940), felice debutto statunitense di Alfred Hitchcock prodotto da David O. Selznick, a sua volta reduce dal successo planetario di Via col vento (Gone With the Wind, 1939, Victor Fleming), e le sette candidature di Furore (The Grapes of Wrath, 1940), adattamento dell’omonimo capolavoro di John Steinbeck diretto da John Ford. Difatti, con grande disappunto del proprio autore, nemmeno un riconoscimento viene assegnato alla prima, coraggiosa opera parlata dell’ormai ex “vagabondo”.

Resta il fatto che i due veri contendenti, Charlie Chaplin e Adolf Hitler – nati lo stesso anno (il 1889), lo stesso mese (aprile), la stessa settimana (la terza) –, hanno comunque avuto modo di confrontarsi, di “incontrarsi”, sebbene a distanza, nella realtà: infatti, nonostante l’avesse fatto bandire dalle sale di tutti i Paesi sotto il diretto controllo delle forze dell’Asse, sembra che il Führer abbia visto il film almeno due volte. Non ci è stata tramandata alcuna testimonianza legata alle eventuali impressioni da lui espresse dopo aver assistito alla proiezione del proprio ritratto in bianco e nero sul grande schermo, uno specchio che per due ore ne ha restituito l’immagine in toni da commedia attraverso un’opera che qualcuno ha definito la Guernica del cinema. Una storia della/nella Storia.