Venticinque anni fa, negli ultimi scampoli del mese di settembre 1985, facendo la sua apparizione sia al XXXIII Festival Internacional de Cine di San Sebastián che al New York Film Festival, vedeva il buio della sala una pellicola definita allora da Woody Allen come «il più bel film dell’anno, forse dell’ultimo decennio».

Nella memoria di chi scrive è ancora viva la profonda impressione suscitata dalla prima visione in assoluto – per di più su grande schermo – di quest’opera: domenica 22 marzo 1998, in occasione della seconda retrospettiva dedicata al cinema tratto o ispirato dai lavori di William Shakespeare (mentre sul botteghino italiano si abbatteva il “trionfale” disastro iperrealista del Titanic scritto, co-prodotto, diretto e montato da James Cameron), Ran (ovvero “tumulto, rivolta, caos”) di Akira Kurosawa chiudeva la XVI edizione del Bergamo Film Meeting.

«Ho pensato a Lear mentre leggevo l’edificante storia di un illuminato generale del Rinascimento giapponese, Motohari Mori (1497-1571). Mori aveva tre figli, e quando si sentì troppo vecchio per governare divise il feudo tra i suoi tre eredi, e il loro comportamento fu così esemplare, per una volta, che grazie all’intesa comune il feudo poté prosperare e ingrandirsi. Cosa sarebbe successo, mi sono chiesto a un certo punto, se i tre figli si fossero comportati come le figlie di Lear? A un certo punto la storia di Motohari Mori e quella raccontata da Shakespeare si sono mescolate nella mia mente; mentre scrivevamo numerosi trattamenti, io e i miei collaboratori non sapevamo più distinguere ciò che apparteneva a Shakespeare e alla nostra immaginazione… ».

Con queste parole il regista nipponico ricorda l’inizio della lavorazione di questo suo personalissimo kolossal, una vetta della storia del cinema scalata e raggiunta all’età di settantacinque (!) anni, la stessa – per intenderci – del grande Carl Theodor Dreyer quando il suo film-testamento Gertrud veniva presentato a Parigi in anteprima mondiale il 18 dicembre 1964. Identica e ancor oggi intatta è la prodigiosa “follia” espressiva raggiunta da entrambi: anche per Ran si è infatti scritto e detto come di un film ultimativo, il testamento pittorico di “Tenno” (l’imperatore, come l’autore era familiarmente conosciuto in patria).

Un capolavoro per il quale non può non tornare alla memoria la battuta di un altro gigante della settima arte, grandissimo amante sia del Bardo che del King Lear in particolare: «È solo a vent’anni, oppure a settanta o ottanta che si fanno le opere più grandi. Il nemico della società sono le classi medie, e il nemico della vita la mezza età. Giovinezza e vecchiaia sono grandi momenti; dovremmo proteggere la vecchiaia come un tesoro, e mettere i geni in condizione di lavorare anche da vecchi, invece di cacciarli via… ». E chissà quanto Orson Welles non stesse pensando a se stesso, all’interno di un bar, consegnando questa frase all’amico Peter Bogdanovich.

 

Anche un altro grande autore di Hollywood, l’ultraottantenne Sidney Lumet – che a sua volta cita apertamente il finale del Re Lear («Dobbiamo accettare il peso di questo triste tempo, dire ciò che sentiamo e non ciò che conviene dire.

I vecchi hanno sopportato di più. Noi che siamo giovani non vedremo tanto né tanto vivremo») in una delle prime sequenze del suo raggelante Onora il padre e la madre (Before the Devil Knows You’re Dead, 2007) – scrive, nell’incipit del suo Fare un film, che «[u]na volta chiesi a Akira Kurosawa perché avesse scelto di inquadrare una scena di Ran in un certo modo. Mi rispose che, se avesse spostato la macchina da presa due centimetri più a sinistra, la fabbrica della Sony sarebbe stata lì ben in mostra, e che, se l’avesse spostata due centimetri più a destra, avremmo visto l’aeroporto – nessuna delle due cose poteva far parte di un film in costume». Anche in una semplice testimonianza come questa risiede la cifra del fascino di Ran.

Un film che Aldo Tassone, profondo conoscitore ed estimatore del regista giapponese, ha definito «l’Inferno secondo Kurosawa. L’itinerario del protagonista, il movimento interno del film, fanno pensare a una caduta senza fine in un imbuto privo di uscita; un cerchio dietro l’altro, il vecchio principe Hidetora precipita sempre più nel cuore dell’inferno» e che merita di certo una (ri)scoperta, non fosse che per un futuro confronto. Infatti, dopo aver già realizzato insieme Il mercante di Venezia (The Merchant of Venice, 2004), per il 2012 è atteso il King Lear firmato dal regista inglese Michael Radford ed interpretato da Al Pacino, il quale – dall’alto delle sue settanta primavere (è nato il 25 aprile 1940) – pare sentirsi ormai pronto per la parte dell’anziano re britanno che rinuncia al potere dividendo il regno fra le sue due figlie e scacciandone la terza, avendo scambiato la sua sincerità per mancanza di amore e rispetto.

Anche oggi – forse oggi più che mai – le 3298 lines di uno dei più abbacinanti frutti dell’arte di tutti i tempi pare avere ancora qualcosa da poter dire agli uomini del XXI secolo e alla loro condizione.