“Non so perché, ma non ero mai stato nel posto dove è stato ammazzato Pasolini”. Con questa frase Nanni Moretti introduce il suo omaggio a Pier Paolo Pasolini alla fine del primo episodio di Caro Diario (1993). Segue un lungo ininterrotto sguardo sullo squallore dell’idroscalo di Ostia, sulla strada che lo percorre e anche più in là, fino al luogo dove è stato trovato il corpo straziato del poeta, la mattina del 2 novembre 1975, giusto trentacinque anni fa.
La musica che accompagna la sequenza morettiana ha i toni struggenti della sapiente improvvisazione, quindi adatta a trasfigurare in sublime quello che di desolante la macchina da presa ci mostra, riproducendo così il prediletto tra i caratteri poetici ed estetici del Pasolini regista: la sacra rappresentazione della povera gente.
Ma Pier Paolo Pasolini non nasce regista. Quando nel luglio del 1961 termina la lavorazione del suo primo film, Accattone, ha già trentanove anni, alle spalle una cospicua attività letteraria come poeta, romanziere e saggista, e una decina d’anni di frequentazione degli ambienti cinematografici romani. Per il cinema ha scritto soggetti e sceneggiature girate da altri, tra cui spiccano i lavori per Mauro Bolognini (Giovani Mariti, 1958, La Notte Brava, 1959, Il Bell’Antonio, 1960) e la collaborazione ai dialoghi de Le Notti di Cabiria (F. Fellini, 1957).
Le sue prime opere filmiche, il citato Accattone, Mamma Roma (1962) e il corto La Ricotta, che compone con alti tre episodi il film RoGoPaG (1963), rappresentano una lucida trasposizione al cinema della materia della propria ispirazione letteraria: quel sottoproletariato urbano vitale, autentico e destinato alla crudeltà, in perenne tragica lotta col mondo sia della borghesia che con quello del proletariato più propriamente detto.
Così gran parte della critica è portata a soffermarsi, non senza ragione, sul raffronto tra il Pasolini scrittore e quello regista, indicando nel secondo una diretta propaggine visiva del primo. Non si può negare lo stretto legame tra la sua attività di scrittore e poeta e quella di regista, ma già nelle opere di letteratura, in particolare nei romanzi degli anni cinquanta, troviamo un Pasolini più visionario che non affabulatore. Il suo cinema nasce infatti più dalla pittura che non dalla letteratura.
Egli stesso sosteneva che “il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto.”, ed anche che “(…) i film di Charlot, di Dreyer, di Ejzenstein hanno avuto in sostanza più influenza sul mio gusto e sul mio stile che non il contemporaneo apprendistato letterario”.
Buttatosi nell’avventura cinematografica privo di una preparazione specifica per la regia, Pasolini ha da subito adottato un approccio sacrale alla tecnica ed allo stile (per sua stessa ammissione), ricavandone un cinema fortemente simbolico, dove la musica e la pittura religiose e rinascimentali gli sono dapprima servite per rappresentare, in quelle figure da strada, un’intera umanità.
Più tardi il suo interesse si è spostato verso la rilettura di alcuni miti della letteratura classica, come in Edipo Re (1967) ed in Medea (1970), e poi ancora verso la messa in scena di alcune grandi opere letterarie, come nei tre film che compongono la cosiddetta “trilogia della vita”: Il Decameron (1971), I Racconti di Canterbury (1972) e Il Fiore delle Mille e Una Notte (1974). Ma la costante espressiva è stata sempre quella di un cinema che nasce come rievocazione della grande pittura italiana, una rilettura che al regista è servita da lente di ingrandimento per meglio scoprire il mondo e le cose del contemporaneo.
Pier Paolo Pasolini credeva nell’imprescindibilità dell’impegno civile e politico per un intellettuale. Sosteneva di amare il mondo e la vita ma di odiare la società borghese, di essere per la morale contro il moralismo della società italiana borghese e postfascista, appiattita dal consumismo come nemmeno il regime seppe fare. La coscienza di questo impegno è stato lo spirito con cui ha intrapreso la sua carriera cinematografica: sfruttare un mezzo di produzione di cultura di massa (il cinema) per mettere in contraddizione dall’interno l’etica borghese corrente, ipocrita e falsamente democratica.
Per singolare forse emblematico destino, ricorre proprio nella solennità cristiana dedicata alla commemorazione dei defunti l’anniversario della scomparsa di Pasolini. La morte lo ha colto poco prima dell’uscita del ferocissimo Salò o le 120 Giornate di Sodoma (1975), stroncandolo barbaramente con una violenza simile a quella con cui in vita era stato attaccato sul piano giuridico, ideologico e morale.
Artista fuori da ogni “parrocchia”, orgogliosamente incapace di compromessi, Pasolini è stato in questo senso una personalità di elevata moralità intellettuale, una di quelle figure del novecento culturale italiano di cui, nell’odierna “bananas” nostrana, si sente la mancanza.
Preme infine sottolineare un ultimo aspetto, che l’odierno appiattimento culturale nel campo della divulgazione cinematografica affatto non contempla. Cioè che va annoverato tra i suoi meriti anche quello di aver provato – con risultati sorprendentemente alti – a strappare il personaggio Totò al codice del borghese italiano medio, culturalmente inerte, volgare e persino aggressivo, con cui l’attore napoletano era normalmente proposto al pubblico.
Con Pasolini, Totò non è più il teppista che fa sberleffi alle spalle altrui, diventa invece indifeso e poetico, un personaggio colmo di dolce umanità che non fa boccacce alle spalle di nessuno, un Totò/Jago disincantato che spiega ad un Otello/Ninetto (Davoli) che cosa siano le nuvole, dicendo che esse semplicemente ci mostrano la “straziante, meravigliosa bellezza del creato”. Così ci piace pensare che ora Pier Paolo Pasolini conosca tutto delle nuvole, ed abbia tra di esse infine trovato pace. Lieve gli sia la terra.