Nell’elenco dei progetti a lungo accarezzati (un anno e mezzo di lavoro) e mai portati a termine dal riservatissimo Terrence Malick tra gli anni Settanta e Ottanta, figura la stesura di una pièce teatrale dedicata alla storia di Joseph Carey (“John”) Merrick (1862-1890), il freak storicamente noto come “The Elephant Man” esibito come un’attrazione da fiera nella Londra vittoriana di fine Ottocento. Nelle intenzioni del geniale cineasta tale adattamento avrebbe dovuto essere recitato all’interno di un tradizionale tendone da circo, itinerante per il mondo.
A porre fine al suo interessamento per questo soggetto giunse la notizia che lo stesso personaggio sarebbe stato al centro dapprima di uno spettacolo allestito a Broadway e successivamente di The Elephant Man, (1980), secondo lungometraggio diretto da David Lynch, prodotto dalla Brooksfilms (neonata casa di produzione di Mel Brooks) e uscito nelle sale statunitensi proprio nell’autunno di trent’anni fa, per poi essere presentato alla Internationale Filmfestspiele di Berlino nel febbraio del 1981.
Non sapremo mai quale aspetto di questa vicenda avesse affascinato Malick, ma questo non ci impedisce di poter spendere qualche parola sulla struggente parabola messa in immagini da Lynch – un affascinante bianco e nero fotografato dal veterano Freddie Francis –, arrivata alla notte degli Academy Awards di quell’anno con ben otto candidature (film, regia, attore protagonista, sceneggiatura non originale, scenografia, costumi, montaggio e colonna sonora) senza però portare a casa nemmeno una statuetta. A questo proposito c’è un piccolo aneddoto che vale la pena di ricordare.
Nell’ambiente cinematografico, all’annuncio delle nominations, molti si stupirono che a quest’opera non fosse stato riconosciuto un premio ad hoc per il trucco – a quel tempo non ancora previsto tra le categorie “oscarabili” – che, dopo circa sette ore di seduta e prima di ogni ripresa, trasformava l’attore John Hurt nell’irriconoscibile Uomo Elefante. Una formale lettera di protesta, inviata al Board dell’Academy e volta a sanare questa svista, non riuscì però a sortire l’effetto desiderato: per The Elephant Man non ci fu niente da fare ma dall’anno successivo venne inserita la nuova categoria (con relativo Oscar) per il miglior make-up.
Curiosità da storia del cinema a parte, il ricordo di questo film emerge nella nostra memoria legato in maniera ormai inscindibile ad un passo evangelico che ci sembra descrivere al meglio il percorso riservato allo spettatore che si trova ad attraversare – in due ore scarse – i bellissimi fotogrammi dell’opus n. 2 lynchiano. Stiamo parlando della cosiddetta profezia di Simeone al momento della presentazione di Gesù al Tempio, contenuta nel secondo capitolo del Vangelo di Luca: «Ecco, Egli è posto per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione – anzi a te pure una spada trapasserà l’anima – affinché vengano svelati i pensieri di molti cuori».
Questa citazione bene suggerisce che tipo di posizione, che assetto di visione sono richieste, sono “pro-vocate” dall’imbattersi – anche con lo sguardo più o meno attento di semplice appassionato – nelle modalità di disvelamento e di dispiegamento operate da Lynch della figura mostruosamente deforme di John Merrick (o meglio del suo “doppio” cinematografico). Un percorso che lo spettatore vede compiere anche ai vari personaggi del film che di volta in volta entrano in contatto con l’Uomo Elefante.
A partire dal primo tra quelli presentati, ovvero il medico chirurgo del London Hospital, il dottor Frederick Treves (Anthony Hopkins, che dovrà proprio al suo ricordo in questo ruolo la proposta di Jonathan Demme di interpretare il dottor Hannibal Lecter ne Il silenzio degli innocenti [The Silence of the Lambs, 1991]): «Stavo pensando al signor Bytes. Comincio a credere che il signor Bytes e io siamo molto simili. Sembra che anch’io abbia fatto del signor Merrick una curiosità da baraccone – non è così? – e questa volta in un ospedale piuttosto che a una festa di paese. Il mio nome è sempre sui giornali e viene costantemente osannato. I pazienti ora chiedono espressamente i miei servizi. E perché l’ho fatto? Perché tutto questo? Sono un uomo buono o un uomo cattivo?» si troverà a dover ammettere alla moglie durante una notte insonne.
Come ha scritto Daniele Dottorini «il cinema di Lynch può essere considerato come una costante proposta di un sentire filmico, come una via d’accesso al problema del reale (“che cos’è la realtà?”) che scopre e svela le illusioni della percezione, del pensiero e del discorso. Uno svelamento che è anche, al contempo, un percorso lungo nuove strade (perdute), nuove possibilità di comprensione del reale attraverso il cinema o, meglio, attraverso l’esperienza della visione».