Grazie ai mezzi di comunicazione il cui uso è ormai divenuto per molti consueto, nella giornata di ieri, martedì 30 novembre, abbiamo potuto vedere parecchi striscioni multicolori attraversare le città d’Italia in una sorta di ideale, gigantesca catena di Sant’Antonio, lembi di tessuto decorati con i più svariati slogan ed esposti da studenti più o meno giovani (e – ci sia concesso, con il beneficio del dubbio – più o meno consapevoli) che stavano in questo modo esprimendo il proprio dissenso nei confronti del disegno di legge di riforma dell’Università italiana. A Roma, in Via del Corso, si sono verificati anche degli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti.

La sera precedente, la stessa «stupenda e misera città» è stata teatro di un’altra, drammatica forma di “protesta” decisamente unica e personale: a segnalarla un più modesto telo bianco in plastica a coprire un corpo ormai privo di vita, steso sulla pavimentazione esterna fradicia di pioggia, giusto al di sotto delle finestre dell’ospedale San Giovanni. E lì accanto, a rappresentare le uniche “forze dell’ordine” presenti, alcuni agenti della polizia scientifica.

Sotto quel fazzoletto bianco si trovava chi è stato riconosciuto tra i più grandi esponenti del cinema italiano (“commedia all’italiana” è definizione fin troppo sbrigativa) a livello internazionale, un uomo che, all’età di novantacinque anni, ricoverato nel locale reparto di urologia per una grave forma tumorale in fase terminale, ha deciso di lanciarsi dal quinto piano dell’edificio poco prima delle 9 di sera.

Un atto di congedo già occorso ad altri grandi della cultura del nostro Paese. Vengono alla mente le “istantanee” fissate sull’ultima pagina de Il mestiere di vivere, il diario di Cesare Pavese: «Questo il consuntivo dell’anno non finito, che non finirò. Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto? […] Basta un po’ di coraggio. […] Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto». Un atto ultimo, definitivo, un salto nel vuoto con il quale chi l’ha compiuto ha voluto rimarcare – almeno così è stato riferito da più parti – la sua indipendenza, la sua “non-dipendenza”. Da chi? Da che cosa?

Nemmeno ci sfiora la tentazione di poter dire una parola altrettanto ultima, definitiva su di un gesto e un momento così “proprio” di ciascun individuo, soprattutto in un Paese che negli ultimi tempi ci ha vertiginosamente assuefatto al sentir formulare e al dover ascoltare pareri, sentenze e opinioni da bar dello sport praticamente su tutto. Chi scrive appartiene a una generazione concepita e venuta alla luce in un decennio caratterizzato da ordigni esplosivi, sequestri, intimidazioni violente, sentenze di morte nei confronti di “nemici” eseguite davanti o per i corridoi dei loro luoghi di lavoro e poeti ridotti a carne maciullata, presi a prima vista per poveri mucchi di stracci abbandonati. Eventi che ci sono stati raccontati da genitori, parenti o amici più vecchi e che abbiamo poi trovato riportati (ma fino a un certo punto) anche sui libri di storia che abbiamo avuto tra le mani sui banchi di scuola.

Una generazione che ora si trova a dover fare i conti con i grotteschi scimiottamenti di quegli anni e di quelli immediatamente precedenti, perfino peggiori di chi o di ciò che vorrebbero contestare. E, lì di mezzo, non un mucchio di apparenti stracci ma un telo bianco a coprire pietosamente chi (anche) quegli anni – con il proprio strumento di elezione e alla sua caustica maniera – ha raccontato. Qualcuno che nove mesi fa (era il 27 febbraio di quest’anno), in occasione del Viola Day, aveva invitato a «spazzare via questa classe dirigente» i giovani presenti in piazza, forse quegli stessi che ieri si sono ritrovati per strada a manifestare.

 

Ecco perché non è solo il come di questo congedo a provocare sgomento e ad aprire più di una domanda in chi osserva. Almeno in questo momento, non vorremmo scandagliare l’appassionata, longeva e intensa parabola artistica di un così grande regista, additare agli appassionati che stanno leggendo questa o quella pellicola di un maestro (l’ultimo) del cinema di casa nostra: ognuno ha certamente la sua o le sue preferite e chi non le ha e volesse approfondire, mosso dalla (mesta) curiosità suscitata dagli articoli di questi giorni, può tranquillamente affidarsi a una qualunque ricerca in rete o a qualsiasi enciclopedia o manuale di storia del cinema.

 

Per ora vogliamo restare davanti a quel telo bianco, prima che gli striscioni delle piazze riprendano il soppravvento, e ringraziare Mario Monicelli per quanto – di noi e per noi – ha un tempo espresso e ora lasciato in eredità su celluloide. Anche perché da questa parte della barricata la “grande guerra” non è per niente finita. Anzi la “buona battaglia” continua. Come ha ricordato Stefania Sandrelli «Mario è stato un po’ come Capannelle della banda de I soliti ignoti: ha fatto il buco per stupirsi nel trovare al di là tutti i suoi amici».