Riprese effettuate in esterni e in dimore storiche, il più delle volte aperte al pubblico, e quindi nella condizione di dover girare diverse scene tra una visita guidata e l’altra. Candelabri disegnati e fabbricati per essere utilizzati in ambienti reali, predisponendo di conseguenza specchi in metallo per proteggere soffitti, muri e quadri ad olio dal calore delle candele. A proposito: nel Settecento esistevano candele fatte di grasso animale (la maggior parte) e in cera vergine (per l’aristocrazia); queste ultime non facevano fumo, profumavano di miele ed emettevano luce dorata. Ne venne ordinato un quantitativo sufficiente a illuminare un centinaio di sale da ballo a una fabbrica londinese che aveva come principale cliente la Chiesa Cattolica Romana.

E poi un obiettivo – uno di un gruppo di dieci – che la Zeiss aveva costruito appositamente per le fotografie satellitari della Nasa, applicato ad alcune delle macchine da presa in modo da girare in condizioni di luce talmente minima da non riuscire quasi a leggere la sceneggiatura. Serve altro? Carte da gioco rettangolari fabbricate con spigoli acuti e senza numeri (nel Settecento infatti non c’erano gli angoli arrotondati); abiti originali – non semplici costumi – del XVIII secolo acquistati e utilizzati adattandoli alla corporatura degli attori o copiati e realizzati grazie a un laboratorio di sartoria creato ad hoc; parrucche – quindici solo per il protagonista – realizzate utilizzando i capelli di ragazze italiane che prendevano i voti entrando in convento.

Quale realizzazione può assommare e nascondere in sé tutti questi particolari creativi? Semplice: l’autentica sublimazione – Barry Lyndon – del sogno (mai realizzato) di tutta una vita – Napoleon – di Stanley Kubrick. Ovvero: un insuccesso di critica, un flop al botteghino, un capolavoro mozzafiato della storia del cinema. Che proprio nella settimana pre-natalizia del dicembre di trentacinque anni vedeva la luce delle sale inglesi e americane.

Come ha rimarcato Enrico Ghezzi, poco dopo l’uscita del film, «[in Barry Lyndon] [p]redomina una visione frontale, una prospettiva sicura. K. si prodiga nella riproduzione perfetta, ai limiti del naturalismo, cura tutto personalmente, dalla fotografia alla preparazione dei costumi che non sono costumi ma veri e propri abiti, provvisti di sottabiti e biancheria d’epoca, perché gli attori possano avere un portamento il più possibile simile a quello che doveva essere nel Settecento. Non è follia questa? Chi nota questi particolari? E soprattutto, dove sta l’invenzione “artistica”? (queste le domande idealistiche di gran parte della critica)».

Ricorda invece Martin Scorsese: «Il progetto più audace di Kubrick fu un film in costume ambientato nell’Europa del XVIII secolo: Barry Lyndon. Kubrick mise a punto nuove tecniche con obiettivi speciali prodotti per catturare il bagliore dei palazzi aristocratici illuminati da candele. Invece di un racconto picaresco, offrì un altro viaggio feroce di autodistruzione: l’ascesa e il declino di un opportunista. In superficie, l’approccio appariva freddo e distante, ingannevole. Ma per me questo è uno dei film più commoventi che abbia mai visto. Lo stile di Kubrick era stranamente inquietante. La sua audacia fu di insistere sulla lentezza, per ricreare il ritmo della vita e del comportamento rituale dell’epoca».

 

Ammettiamo per un attimo che a uno dei geni della storia dell’arte universale fosse riuscito di preservare la sua Battaglia di Anghiari sulla parete del Salone dei Cinquecento a Palazzo Vecchio con la tecnica della pittura “a encausto”: genialità, studio, tradizione, certo; ma anche possibilità, novità, sperimentazione, rischio, fallimento. Ebbene: qualcosa che semplicemente non esiste e di cui si tramandano – insieme alle descrizioni – solo gli studi dello stesso artista e le copie dei suoi cartoni operate da altri pittori ci raccontano di più e meglio del sogno di grandezza, di “totalità” di quest’uomo – e quindi saldamente inscritto nel cuore dell’uomo – di tanto altro che invece si è conservato e a cui possiamo rivolgere il nostro sguardo più o meno “educato”. Non ci sembra certo di stare a parlare di una forma particolare di maniacalità. Tutt’altro.

 

Come allora negare a un regista cinematografico del Novecento – forse il più grande di tutti – una tale forza provocatoria, per come si è invece raccolta, concentrata e dispiegata nella sua opera pur criticamente e commercialmente più sfortunata? Realizzazione nella quale – in pieni anni Settanta – ha osato un’operazione “d’avanguardia” che mette ancora oggi i brividi: «Si potrebbe immaginare un film dove le immagini e la musica fossero utilizzate in modo poetico o musicale, dove si avesse una serie di enunciati visuali impliciti piuttosto che delle esplicite dichiarazioni verbali».

 

Ci sono forse delle differenze tra il futuro siderale di 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) e il passato settecentesco di Barry Lyndon? Non a caso sono le sue due pellicole più “definitive”.