“Mi dicevo: con Psycho voglio fare un piccolo film piacevole; non mi sono mai detto: girerò un film che mi farà guadagnare quindici milioni di dollari.” Così si esprimeva Alfred Hitchcock a proposito del suo film di maggiore successo, uscito nelle sale nel novembre del 1960, giusto cinquant’anni fa. Nella sintetica affermazione, tratta dal celebre libro-intervista di Francois Truffaut, si trova già tutto del film: un perfetto esercizio di pura suspense cinematografica (piccolo film) su un soggetto all’apparenza giallo-poliziesco, genere di innato fascino ben noto al grande pubblico (piacevole), perciò destinato – il film – a prendere il volo al botteghino indipendentemente dalla volontà dell’autore.

Alla immensa fama di Psycho ha poi contribuito molto, nel corso degli anni, la televisione. Ciò nonostante, trovo quest’ultima molto irritante quando definisce Alfred Hitchcock “il maestro del brivido”. Sempre mi domando cosa c’entri questo con l’abilità artistica visiva di un regista cinematografico. Ma è risaputo: la televisione è per sua natura costretta spesso a semplificare ogni cosa, anche banalizzando. Invero sir Alfred Hitchcock è stato uno dei più bravi e prolifici registi di tutta la storia del cinema; come tale, per meriti inequivocabilmente conseguiti sul campo, è semmai definibile maestro di Cinema. E la struttura del suo “piccolo film piacevole” lo dimostra ampiamente.

Marion (Janet Leigh) è impiegata in un’agenzia immobiliare di Phoenix. Un giorno all’ora di pranzo incontra il fidanzato Sam (John Gavin) in un motel, discutono del futuro. Rientrata in ufficio, viene incaricata dal capo di depositare in banca 40.000 dollari in contanti. Decide quindi di rubare il denaro e fuggire in auto alla volta della California, dove Sam la attende. Alla sera del secondo giorno, sorpresa da un temporale, fa sosta al motel di Norman Bates (Anthony Perkins). Questi abita nella casa a fianco del motel con la madre. Quando porta la cena alla cliente, si intrattiene con lei lamentandosi dell’anziana madre, invalida che non può lasciare sola. Poi Marion si prepara per la notte, entra nella doccia e qui viene accoltella violentemente. Dopo che si ode la voce fuori campo di Norman incolpare la madre, lui accorre in soccorso di Marion, ma trovatola ormai morta, pulisce con cura tutta la stanza e ne fa sparire il corpo e l’auto nel vicino stagno. 

Nel frattempo a Phoenix hanno scoperto il furto e la scomparsa di Marion, la sorella Lila (Vera Miles) si reca in California da Sam, che a sua volta non ha notizie. Un detective assunto dall’agenzia di assicurazioni (Martin Balsam) prima raggiunge Lila e Sam in California, poi scopre la sosta di Marion al motel di Norman. Non riuscendo a parlare con la madre, coperta da Norman, si introduce di nascosto nella vecchia casa e qui muore accoltellato. Non vedendo più tornare il detective, Lila e Sam rintracciano il motel. Arrivati sul posto, scoprono dallo sceriffo (John McIntire) che la madre di Norman è morta da dieci anni. Così, mentre Sam distrae Norman, Lila si infila in casa ed arriva a scoprire il cadavere mummificato della madre. Nel frattempo Norman, liberatosi di Sam, arriva alle spalle di Lila brandendo un coltello, è truccato da donna ed in stato di crisi per sdoppiamento della personalità. Norman esita e Sam, ripresosi, arriva appena in tempo per evitare l’omicidio. Al distretto di polizia uno psichiatra (Simon Oakland), dopo aver interrogato Norman, spiega che il ragazzo è stato per anni vessato dalla madre egocentrica e possessiva, fino ad uccidere lei ed il patrigno col veleno. E ora Norman, oppresso dal senso di colpa, fa rivivere inconsciamente la figura della madre tramite delle crisi di sdoppiamento della personalità, durante le quali il lato femminile (materno) della sua psiche tende a sopprimere tutte le altre figure femminili che si avvicinano all’altro se stesso, Norman. 

Per la prima volta nella carriera, Hitchcock lega la paura ed il suspense ad una storia psicanalitica da manuale, con sdoppiamento della personalità e complicazioni edipiche e sessuofobe, dove l’inizio noir del film è solo un ingegnoso pretesto. Ma, intreccio a parte, pare abbastanza chiaro come Hitchcock in questo film giochi con gli spettatori come il gatto gioca col topo: se lo può permettere solo chi abbia una profonda conoscenza dei meccanismi artificiosi del cinema, solo chi si sia formato all’accademia del racconto per pure immagini quale è stato il cinema muto degli anni venti. Far morire la presunta protagonista dopo meno di metà film significa infatti trasgredire alle regole auree del racconto filmico classico, a meno che si sappia (e l’autore lo sa) che il vero protagonista del film non è questo o quel personaggio (neanche Norman lo è appieno), ma la suspense stessa, ovvero quel meccanismo di cronometrica precisione ed immenso fascino visivo che, introducendo elementi ambigui e misteriosi nella vicenda, suscita nello spettatore un’attesa carica di tensione ed emozione.

Aprendo una finestra sul cinema di Hitchcock, un corpo di opere vasto ma stilisticamente abbastanza compatto, la prima cosa che si nota è la sua adesione quasi totale ad un solo genere: il giallo, che nella sua variante cinematografica più spesso è definito thriller. Cosi la critica ha per anni relegato Hitchcock tra i registi commerciali e di genere, quindi sottovalutato, quando non ignorato o addirittura sbeffeggiato. Dalla sua rivalutazione critica, inaugurata sul finire degli anni cinquanta dai “giovani turchi” della rivista francese Cahiers du Cinema, è emerso invece un aspetto fondamentale: Hitchcock è stato innanzitutto “uno dei più grandi inventori di forme di tutta la storia del cinema”.
 

Dentro il predominio (fittizio) della narrazione di genere, Hitchcock disegna tutti gli elementi formali (colori forti e irreali, bianco e nero di taglio espressionista, scenografie visibilmente finte, profondità di campo eccessiva o totalmente assente) al fine di smentire la leggibilità del racconto e spostare il focus del suo cinema dall’azione allo sguardo. Si può arrivare a dire che la sua intera opera, al di sotto del racconto, abbia per tema il cinema stesso. Il cinema nella sua essenza di sguardo, di doppio, di contrasto tra punti di vista, di specchio rivelatore inteso come mezzo espressivo che scopre e poi copre di nuovo (ri-velare).

E così, come La Finestra sul Cortile (1954) e Vertigo (1958) sono i capolavori visivi, Notorius (1946) ed Intrigo Internazionale (1959) sono gli intrecci più riusciti basati sui migliori pretesti narrativi della carriera (quello che Hitchcock definiva MacGuffin), Gli Uccelli (1963) è quella visionaria riflessione sull’angoscia che rappresenta il testamento cinematografico del suo autore, Psycho è il grande successo, il film di Hitchcock che tutti conoscono.

Ciò non di meno, l’importanza e la bellezza del film risiedono nel fatto che la suspense ed il mistero in esso presenti sono assoluti, perfetti per costruzione e purezza, sciolti sia dalle circostanze narrative con cui inizia la vicenda, che dalla sottotrama edipico-psicanalitica che le sostituisce dopo la scomparsa improvvisa della presunta protagonista. Con Psycho è il cinema stesso nel suo farsi pura tensione ad essere il vero soggetto-oggetto del film: esso rimane pertanto iscritto nella storia come mirabile esempio di arte per il solo gusto dell’arte. Firmato Alfred Hitchcock, inimitabile immortale maestro di Cinema.