Un lampo improvviso e inaspettato. Già ormai sistemati nelle sedie disposte all’aperto per gustarci uno dei tanti titoli – per la cronaca: Ratatouille, “delizioso” lungometraggio d’animazione targato Pixar Animation Studios, firmato Brad Bird e datato 2007 – proposti da una delle arene estive cittadine di quell’anno, ecco arrivare alle orecchie una serie di note inconfondibili, di quelle che aprono istantaneamente altri mondi davanti agli occhi (e qui confidiamo nella comprensione di chi ritiene che il valzer Sul bel Danubio blu non “appartenga” più solo a Johann Strauss jr. ma anche – o del tutto? – a Stanley Kubrick… ), a commento dei pochi, emozionanti secondi del teaser di WALL-E (2008, Andrew Stanton), a quel tempo ancora solo un “prossimamente”.

La curiosità per la nuova pellicola si era ormai scatenata ma la memoria non poteva che riannodare i propri fili, sulle ali di quell’evocativo tema musicale, e tornare ad una grandissima pellicola degli anni Ottanta, che in fatto di gusto per rimandi cinematografici più o meno espliciti – i fratelli Marx, il western della Hollywood che fu, Casablanca (1942, Michael Curtiz), La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin, 1926, Sergej M. Ejzenštejn), Akira Kurosawa, Federico Fellini – e di “archeologia del quotidiano” avremmo poi scoperto avere davvero molto in comune con la storia del piccolo robot spazzino (e curioso collezionista) al centro di quello che sarebbe diventato l’ennesimo gioiello della casa di Emeryville.

Stiamo parlando di Brazil, a un quarto di secolo esatto dalla sua uscita nelle sale cinematografiche (era il 20 febbraio 1985), tutt’ora considerato il capolavoro del regista di origine statunitense (nato in Minnesota nel 1940, è ormai cittadino inglese a tutti gli effetti) Terence Vance Gilliam, ovvero Terry Gilliam, del quale – dopo il recentissimo Parnassus – L’uomo che voleva ingannare il diavolo (The Imaginarium of Doctor Parnassus, 2009) – siamo già in impaziente attesa della personalissima rivisitazione delle vicende de El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha di Miguel de Cervantes, un progetto accarezzato per quasi un decennio e poi abbandonato nell’autunno del 2000 dopo svariati mesi di pre-produzione e appena sei sfortunatissimi giorni di riprese in esterni in Spagna con il francese Jean Rochefort nei panni dell’hidalgo “dalla triste figura” e Johnny Depp nel ruolo di Sancho Panza.

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«Tomorrow was another day / The morning found me miles away / With still a million things to say / Now as twilight beams the sky above / Recalling thrills of our love / There’s one thing I’m certain of / Return I will / To old Brazil»: a metà del decennio indelebilmente aperto e segnato – cinematograficamente parlando – dai replicanti in cerca di «Più vita, Padre» di Ridley Scott (Blade Runner, 1982), Brazil spiazzò davvero tutti con i suoi 136 minuti di atmosfere quasi kafkiane “rilette” con uno sfrenato gusto felliniano, pensati come una liberissima rivisitazione cinematografica del celebre romanzo 1984 di George Orwell (che il regista ha sempre dichiarato di non avere mai nemmeno letto!) nell’anno del fatidico anniversario, nati sotto titoli di lavorazione altamente evocativi (The Ministry of Torture, poi il kubrickiano How I Learned to Live With the System, infine il felliniano 1984 e ½, ), da subito già “punteggiati”, dal punto di vista musicale, dalle note della fortunata canzone Aquarela do Brasil lanciata da Ary Barroso nel 1939.

Lasciamo alle parole dello stesso Gilliam di spiegare il motivo ispiratore per il titolo definitivo della pellicola: «Originariamente il film iniziava a Port Talbot in Galles. A Port Talbot si produce l’acciaio. La spiaggia è completamente nera, per via della polvere di carbone. Le navi giungono alle scogliere e questi grandi nastri trasportatori portano il carbone. La polvere di carbone copre tutto e la spiaggia è nera. Ero seduto lì, al tramonto. Avevo l’immagine di un tizio seduto su questa spiaggia a guardare il tramonto mentre la radio trasmetteva strana musica, roba romantica latino-americana, brasiliana. È iniziato tutto così. Ed è ancora di questo che parla il film. Parla di chi cerca di fuggire o crede che ci sia una via di fuga».

Una pellicola realmente sorprendente, un’opera visivamente ricca e debordante come poche nella storia del cinema, una testimonianza del folgorante estro creativo dell’autore che l’ha firmata tra molte difficoltà produttive e che, a montaggio ormai ultimato, l’ha dovuta difendere dalla casa di produzione che l’aveva finanziata, ingaggiando una leggendaria battaglia – che Gilliam rese di pubblico dominio acquistando una intera pagina listata a lutto su “Variety”, Bibbia dello show business hollywoodiano – entrata anch’essa nella storia del cinema.

 

 

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Ricorda il regista: «Quando la Universal Pictures vide il film, lo detestò. Dai più alti livelli dello Studio venne rilasciata una dichiarazione pubblica nella quale il film veniva definito come non distribuibile, nemmeno guardabile […]. Ho organizzato una proiezione privata con Steven Spielberg, perché lui era molto vicino ai vertici della Universal e gli ho chiesto di darmi una mano, perché ritenevo che Brazil fosse un buon film. Non so poi cosa accadde ma dalla Universal mi fecero sapere che avrebbero tagliato e rimontato il film e lo avrebbero distribuito nella forma che avessero ritenuto migliore. Ha avuto inizio una lunga battaglia legale, fra i miei legali ed i legali della Universal, che mi voleva vietare anche di proiettare il film durante un seminario che ero stato chiamato a tenere in una scuola di cinema […].

Mi venne l’idea di organizzare dei pullman che portassero i critici interessati a vedere il film oltre i confini americani, dove avrei potuto proiettarlo così come io lo avevo pensato, senza i vincoli imposti dalla Universal Pictures. Fortunatamente ci fu un recensore che aveva visto il film in Europa e lo aveva definito un grande film, così vennero organizzate delle proiezioni private direttamente nelle abitazioni dei critici, portammo il film a domicilio, all’insaputa della Universal. Così, quando poi il film cominciò a ricevere nominations e premi, senza che nessuno lo avesse ufficialmente visto nei cinema, tutti si stupirono moltissimo».

Una genesi di certo dolorosa e insieme avvincente, davvero degna del cult movie che è Brazil (anche se apparentemente offuscato da altri titoli che hanno raccolto più consensi di critica e di pubblico). Eppure una vicenda che fa ben sperare in vista della prossima fatica di Gilliam, nonostante quanto si può vedere nel documentario Lost in La Mancha (2001, Keith Fulton e Louis Pepe) – emozionante testimonianza sul mestiere del cinema, splendida visita a quel campo di battaglia che è la produzione di un lungometraggio – e quella che è considerata – Orson Welles docet – la “maledizione di Don Chisciotte” (ovvero: chi tenti di adattare Don Chisciotte è destinato a diventare Chisciotte, nell’impossibilità di trasformare la fantasia in realtà). Anche alle «8:49 P.M., Somewhere in the 20th century» resta comunque un fatto (ribadito dalla visione di un’opera immaginifica – eppure piantata nella “quotidianità” – come Brazil): «Ascolta, Sancio. La libertà è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai fatto agli uomini!».