La notizia ha trovato spazio sui quotidiani dello scorso fine settimana: la Wto, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, ha annunciato che la Cina, con i suoi 1202 miliardi di dollari di merci, è il primo esportatore globale, davanti a Germania, Stati Uniti, Giappone, Paesi Bassi, Francia e Italia. Anche filtrata attraverso esperienza e sentire quotidiani, la cosa appare l’ovvia conseguenza di uno sviluppo apparentemente inarrestabile ormai sotto gli occhi di tutti. Ma immergendoci in una sala cinematografica del Belpaese, focalizzandoci su cosa ha proposto e propone alle nostre platee l’industria del cinema, che idea avremmo potuto farci di questo annuncio? Avrebbe trovato quell’evidente riscontro che nasce dal guardarsi intorno per strada nelle vie delle proprie città? E sarà davvero Made in China anche il futuro della settima arte? Per tentare di rispondere non possiamo che proporvi un piccolo viaggio a ritroso nel tempo.
«Da bambino quale attore americano preferiva, Stallone o Clint Eastwood?»
«Veramente il mio eroe era Charlie Chaplin. L’unico che capissi, niente parole, pianoforte, violino e la sua mimica eccezionale».
«Che cosa aveva di speciale Bruce Lee?»
«È stato il primo a usare seriamente il kung-fu nel cinema. Parlava bene l’inglese, capiva le esigenze del pubblico americano e pensava universalmente».
«Perché piacciono i film di kung-fu?»
«Parlano un linguaggio universale, quello del corpo. Non hanno bisogno di tante parole. Per noi orientali il kung-fu è come il calcio per voi italiani, lo capiscono tutti».
«Come mai questa invasione orientale in America?»
«Merito della tecnologia. I satelliti, i computer, i videogame, hanno infranto le barriere. Per quanto riguarda il cinema poi, Hollywood è sempre alla ricerca di sangue fresco. Negli anni ’60 sono stati gli europei, negli anni ’80 gli australiani, oggi è “Asia time”».
Quell’“oggi” è l’estate del 2000 e chi risponde alle domande dell’intervistatore di turno è Jet Li, campione mondiale di wushu e divo (in patria) dell’action movie. Un ruolo che allora condivide con l’amico-rivale Jackie Chan.
Quest’ultimo, classe 1954, idolo di Quentin Tarantino e Sylvester Stallone, è indicato dai più come l’erede di Bruce Lee, anche se di fatto è l’esponente di uno stile decisamente più incruento, come dimostra la sua filmografia essenziale: Chi tocca il giallo muore (The Big Brawl, 1980, Robert Clouse), La corsa più pazza d’America (The Cannonball Run, 1981, Hal Needham), Supercop (Police Story: Supercop, 1992, Stanley Tong), Terremoto nel Bronx (Rumble in the Bronx, 1995, Stanley Tong), Rush Hour – Due mine vaganti (Rush Hour, 1998, Brett Ratner), Pallottole cinesi (Shanghai Noon, 2000, Tom Dey), solo per citare alcuni titoli, cioè quelli che permettono anche alle platee delle sale occidentali di avvicinare il cinema visivamente “ballettistico” targato Hong Kong.
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Jet Li, dal canto suo, giunge proprio negli ultimi anni ’90 alla sua consacrazione anche sul mercato statunitense con pellicole quali Arma letale 4 (Lethal Weapon 4, 1998, Richard Donner) e Romeo deve morire (Romeo must die, 2000, Andrzej Bartkowiak), quest’ultimo diretto dall’operatore polacco dei fratelli Andy e Larry Wachowski, gli allora poco più che trentenni autori del trittico costituito da Matrix (1999), Matrix Reloaded (2003) e Matrix Revolutions (2003), ovvero il definitivo passaporto verso gli Stati Uniti per il cinema d’azione hongkonghese, con la produzione di Joel Silver, uno dei maggiori promotori dell’action movie hollywoodiano degli anni ’80 e ’90: pensiamo anche solo a pellicole quali 48 ore (48 HRS, 1982, Walter Hill), Commando (1985, Mark L. Lester), Arma letale (Lethal Weapon, 1987, Richard Donner) e Trappola di cristallo (Die Hard, 1988, John McTiernan).
Il successo del cyber film è planetario e dovuto in gran parte all’impatto visivo delle sequenze affidate fotograficamente al sistema “bullett-time” di John Gaeta e coreograficamente all’esperienza del celebre stunt master Yuen Wo-Ping, che impone quattro mesi e mezzo di preparazione a tutti gli attori coinvolti negli acrobatici duelli che punteggiano l’opera e i cui inestimabili lavoro e consulenza sono alla base delle evoluzioni che animano i combattimenti dei successivi La tigre e il dragone (Crouching Tiger, Hidden Dragon, 2000, Ang Lee) e i due Kill Bill (2003 e 2004) tarantiniani. Un blockbuster dal sapore sì orientale, girato in Australia (per via dei costi inferiori rispetto agli Stati Uniti), ma dove nulla ha strettamente a che vedere solo con il cinema 100% East-made, rappresentando semmai un esempio di fusione tecnico-estetica tra Occidente e Oriente.
Commistione che ritroviamo – e a nostro avviso ben più raffinata – se passiamo a considerare il lavoro di un regista che all’anagrafe si chiama Yu-sen Wu ma è ormai universalmente noto con il nome d’arte di John (in omaggio a San Giovanni Battista: è infatti un devoto luterano) Woo, prossimo Leone d’oro alla carriera alla 67ª edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia.
John Woo, Classe 1946, attivo dal 1969 come assistente di produzione e supervisore alla sceneggiatura, esordisce dietro la macchina da presa nel 1973 con Farewell Buddy, film storico d’azione uscito con il titolo The Young Dragons solo nel 1975 per problemi con la censura. Seguono poi sia commedie che film d’azione fino alla consacrazione internazionale con l’epopea gangsteristica di A Better Tomorrow (1986) e The Killer (1989), entrambi prodotti da Tsui Hark, uno degli iniziatori – con la sua Film Workshop – della New Wave hongkonghese.
Nel corso degli anni ’90, il faticoso sbarco e la successiva affermazione a Hollywood con Senza tregua (Hard Target, 1993), Nome in codice: Broken Arrow (Broken Arrow, 1996), Face/Off – Due facce di un assassino (Face/Off, 1997) e Mission: Impossible-2 (2000).
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Se l’esperienza legata al primo titolo rappresenta un vero e proprio incubo (chiamato dalla star Jean-Claude Van Damme alla regia, l’opera così come pensata dal regista incappa in un divieto ai minori di 17 anni che lo costringe a rimontarla più volte fino a quando la casa di produzione, la Universal, gliela toglie dalle mani), della seconda è Woo stesso ad indicarne un problema ai limiti del paradossale (anche per chi non sa nulla di storia del cinema): «Il guaio di Broken Arrow era il montatore: ha tolto tutti i ralenti che avevo inserito per ottenere determinate emozioni dagli spettatori. Mi diceva: “Lascia perdere, così ti perdi il pubblico. Dài ritmo, più veloce, più veloce”. Non sapeva nemmeno chi fosse Sergio Leone, e quando gli citavo Peckinpah mi rispondeva che era troppo “selvaggio”!». Si sarà capito che anche la vicenda produttiva di questo film non è certo delle più lineari, anzi. Solo per fare un esempio e restare in tema, alla pellicola lavorano tre diversi montatori, tra cui il John Wright di Speed (1994, Jan De Bont) e Joe Hutshing, premio Oscar per Nato il quattro luglio (Born on the Forth of July, 1989) e JFK – Un caso ancora aperto (JFK, 1991), due tra le più potenti pellicole di Oliver Stone.
Mentre in occasione dell’uscita di Face/Off ecco come, sorridendo, il regista descrive il suo cinema: «Mi piace pensare che sia l’incontro poetico tra il kung-fu, il balletto e l’opera. Sette spose per sette fratelli, Cantando sotto la pioggia, West Side Story, All That Jazz sono film fondamentali per me. (…) Il mio idolo è Gene Kelly, forte ed elegante allo stesso tempo. Quando dirigo una scena d’azione, penso sempre a un numero da musical e giro con la stessa passione».
Anche noi sorridiamo – ma solo di ammirato stupore – all’idea che nel campo visivo di questo «predicatore con la macchina da presa» (come egli stesso si definisce) di Hong Kong trovino il loro trait d’union figure come Bruce Lee e Gene Kelly e gallerie come il musical hollywoodiano e il cinema di Melville, Demy, Leone e Peckinpah. Ecco anche solo accennato, nell’esperienza di un regista formatosi nello specifico ambito dell’industria cinematografica del proprio Paese e poi avventuratosi verso altri lidi, un fecondo percorso di (reciproca) contaminazione con forme e modelli occidentali, in primis la grande stagione del cinema classico americano: anche se la prima pellicola a cui lo portò era Il mago di Oz (The Wizard of Oz, 1939, Victor Fleming), la madre era una fan di Humphrey Bogart!
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In conclusione, vogliamo spingerci più in là, arrivando direttamente all’impronta lasciata da Bruce Lee e facendo uscire dal cono d’ombra la sua rilettura ad opera del grandissimo (e già citato) Sam Peckinpah in Killer Elite (The Killer Elite, 1975), sua prima incursione nel filone dei film di spionaggio. Al suo apparire la pellicola pare pagare più di un debito alla stagione del kung-fu movie, ma a distanza di tempo, considerato con più attenzione il suo mix di arti marziali, sparatorie e montaggio frammentato (un prontuario – alla “Arancia meccanica”, 1971, Stanley Kubrick – di ralenti, accelerazioni, fermi immagine), si rivela per quello che è: l’autentica “Bibbia” dei registi menzionati poco sopra.
Ora, lungi dal voler far coincidere le vicende del cinema cinese con le sole carriere di Jet Li, Jackie Chan, Tsui Hark e John Woo (che abbiamo preso solo ad esempio) – ma nemmeno con le parabole di altri celebrati autori quali Zhang Yimou (1951), il taiwanese Ang Lee (1954) e Wong Kar-wai (1958) -, ci chiediamo però: siamo sicuri che la Cina pronta ad invadere l’Occidente con le sue pellicole sia ancora e solo la “Cina”, cinematograficamente parlando?