A cinque anni da Mare dentro, dopo quattro di preparazione e i fischi del pubblico al Festival di Cannes 2009, dove è stato presentato fuori concorso, arriva nelle sale italiane – più breve di venti minuti per volontà dello stesso regista, il cileno-spagnolo Alejandro Amenábar – la vicenda di Hypathia (o Ipazia), matematica, astronoma e filosofa neoplatonica pagana, che trovò la morte nel 415 dopo Cristo in una Alessandria d’Egitto resa teatro dei virulenti scontri di carattere politico-religioso tra pagani, cristiani ed ebrei. Un’opera dichiaratamente a tesi per una pressoché unilaterale, schematica, irrisolta, anche se appassionata (e, per un certo verso, appassionante) requisitoria contro l’uso strumentale della parola “Dio” e della “parola di Dio”. Ma tra alti concetti – ragione, fede, scienza, libertà di pensiero – fa capolino anche dell’altro…
Più di quarant’anni fa, lo sguardo da fotografo e il genio visionario di Stanley Kubrick, al termine della sua pellicola più celebre e “definitiva”, 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968), proponevano allo spettatore gli “eyes wide open”, gli occhi spalancati del Figlio delle Stelle, dell’Uomo rifatto nuovo, a contemplare “un nuovo cielo e una nuova terra” sulle note dell’Also sprach Zarathustra di Richard Strauss, ultima inquadratura di un’opera cinematografica di cui lo stesso regista aveva detto: «La MGM ancora non lo sa, ma hanno appena pagato il conto per il primo film religioso da sei milioni di dollari».
Si può allora affermare che Agorà (Agora, 2009), ultima fatica del regista cileno-spagnolo Alejandro Amenábar (classe 1972), è il primo (?) film anticattolico da cinquanta milioni di euro, emergendo – narrativamente – da una sequenza che pare quasi l’ideale controcampo dello sguardo lanciato alla Terra dal Feto astrale kubrickiano. Una dichiarazione del regista ci sembra particolarmente indicativa delle ragioni che lo hanno spinto verso i libri di storia dell’astronomia e quindi all’incontro con la figura di Hypathia (o Ipazia), la cui vicenda è al centro della sua pellicola: «Agorà è nato una notte in cui guardavo in alto, in direzione del cielo e del firmamento. Mi ha commosso il sentimento di spazio infinito e di profondità che mi venivano ispirati e così ho deciso di fare un film sulle stelle».
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Ma questo è solo l’incipit, quella che scopriremo ben presto essere solo la prima volta di uno sguardo che vorrebbe essere “altro” sulla storia che va ad iniziare. Anche perché la “nuova terra” che man mano avviciniamo è l’Alessandria d’Egitto del 391 d.C., con il celebre Faro e l’altrettanto rinomata Biblioteca, dove subito vediamo Ipazia impegnata in una lezione con i suoi “fratelli”. Nemmeno il tempo di assorbire, anche visivamente, il primo, sanguinoso scontro tra pagani e cristiani – il montaggio di Nacho Ruiz Capillas ci offre addirittura un’accelerazione che fa apparire le folle in preda chi alla ferocia chi al terrore come tanti brulicanti insetti – che subito la macchina da presa ci riporta tra le stelle, a contemplare di nuovo il globo terrestre.
Colonna sonora i “sospiri, pianti e alti guai” delle persone che abbiamo appena lasciato: «Mi sono spesso allontanato dalla Terra per riprenderla dall’alto o vagare nel cielo, come per dire che il mondo in cui viviamo è sempre il medesimo». Ecco il nocciolo della questione: più ancora delle gesta e delle frasi di un vescovo del tardo Impero romano che pare uscito da un video di Al Qaeda, può lo sguardo di Amenábar, che sembra assumere per certa l’idea che nessuno o niente possa sentire o dire l’ultima parola sulla follia, sul dolore, in definitiva sul Male – subìto o procurato – su di “questo grande sasso”, figuriamoci poi se in nome di (un) Dio.
Eppure, quando ormai gli avvenimenti stanno precipitando verso il loro tragico epilogo, la sceneggiatura – firmata dallo stesso Amenábar e dal fido Mateo Gil – mette in bocca al prefetto (cristiano) Oreste, ex allievo di Ipazia e tra gli ultimi ad essere spinto a forza lontano da lei, una domanda – inconsapevolmente forse non colta nemmeno dall’autore – lanciata alla sua intrepida maestra che lo stava incalzando («Voi non mettete in discussione ciò in cui credete. Io devo»): quella di affermare un nesso tra la sua caparbia sete di sapere, l’eventuale scoperta della forma perfetta che regge i pianeti e le stelle in cielo e la natura (il destino) degli uomini.
Tra i tanti efferati scempi a senso unico cui si assiste nelle due ore del film, questa “sfida” è l’aspetto più urgente che al momento dei titoli di coda resta “impigliato” nello spettatore, insieme al desiderio di capirne di più e di ricercare, dentro la propria esperienza, una risposta alla questione. C’è chi ha scritto che Agorà «dovrebbe finire, di diritto, nei programmi scolastici. Difetti compresi». Ci sentiamo di sottoscrivere: anche perché su tale campo di prova – il fatto educativo, nella concretezza del rapporto tra docente e studenti – si incaglierebbero di certo i rabbiosi proclami di tanti cattivi maestri che si aggirano a scorta dell’opera, alla ricerca di uno “scandalo” che non c’è, professando un Verbo che si è finalmente (per loro) fatto pellicola.