«Basta sentir pronunciare il suo nome, o vederlo scritto, perché davanti agli occhi si spalanchi un mondo intero. Un mondo vasto, misterioso, che non ha uguali nella storia del cinema. La gente pensa sia un peccato che Kubrick abbia girato così pochi film in vita sua. Io dico sempre che bastano quelli che ha fatto. Bastano per dieci vite.

Kubrick ha ampliato la nostra concezione di quello che è possibile mostrare in un film. E, secondo me, nel far questo è riuscito in realtà a espandere la coscienza che abbiamo di noi stessi: le crudeltà di cui siamo capaci, il nostro struggerci per qualcosa a cui è impossibile dare un nome, le forze che ci spingono verso direzioni strane e perturbanti».

Possiamo immaginare due tipi di approccio con cui il pubblico può avere accostato quanto proposto da “Stanley Kubrick fotografo. 1945-1950”, la mostra in chiusura questa settimana al Palazzo della Ragione di Milano: quello di chi, sulla scorta del Martin Scorsese citato in apertura, si è avventurato all’attenta e scrupolosa ricerca delle tracce più o meno riscontrabili del genio (non solo visivo) a venire oppure quello di chi si è avvicinato con un atteggiamento altrettanto curioso cercando di ca(r)pire che idea del mondo potessero far trasparire i lavori su commissione di un giovanotto alle prese con una delle sue grandi passioni (la fotografia) sulla quale si era poi inserita la propria professione (il fotoreporter), un ventenne del Bronx destinato a diventare il Prospero cinematografico – anzi il vero “Citizen Kane”, per citare uno dei suoi film preferiti – del Novecento.

Stanley Kubrick nasce a New York il 26 luglio 1928 da Jacques Leonard Kubrick e Gertrude Perveler, una famiglia di origini mitteleuropee: il nonno, il sarto ebreo Elias, era infatti giunto negli Stati Uniti dalla nativa Galizia, allora parte dell’Impero austro-ungarico. Il regalo che decide della sua futura carriera, almeno come inconsapevole marcia di avvicinamento, arriva nel 1941: per il suo tredicesimo compleanno il padre gli dona una Graflex 33mm, macchina fotografica reflex ad alta velocità, di produzione americana, appartenente all’ultima generazione delle semi-portatili, pesante e poco maneggevole (3,8 chili di peso per un ingombro di 20x18x4 centimetri).

Al padre che vorrebbe mostrargli come usarla, risponde: «Grazie papà, ma voglio scattare foto a modo mio». Insieme al gioco degli scacchi, alla batteria (è infatti un amante del jazz, come documenta anche uno scatto presente alla mostra) e al volo (nell’estate del 1947 ottiene il brevetto di pilota per monomotori), da questo momento la fotografia diventa l’altra sua grande passione, inizialmente affascinato dal lavoro di Arthur Fellig (noto con il nome d’arte di “Weegee”), fotografo newyorkese le cui immagini appaiono come acute caricature sociali dell’immediato dopoguerra.

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Il giovane Stanley frequenta la William Howard Taft High School e dopo il diploma, all’età di diciotto anni, si dedica a tempo pieno come fotografo per il diffusissimo quindicinale “Look” (ovvero “America’s Family Magazine”), rivista diretta concorrente del settimanale “Life” e dalla quale viene assunto nel 1946 dopo che sul numero del 26 giugno 1945 era stata pubblicata una sua foto che ritraeva un edicolante visibilmente meditabondo – una posa assunta su diretta richiesta dell’allora sedicenne Kubrick – circondato dai titoli cubitali dei giornali il giorno della morte di Franklin Delano Roosevelt.

 

Anni dopo avrebbe dichiarato a Michel Ciment, uno dei suoi biografi, che «[p]er me ottenere quel lavoro fu una pausa miracolosa dopo il diploma. […] Quella fu un’esperienza preziosa per me, non solo perché imparai un mucchio di cose sulla fotografia ma anche perché mi insegnò a capire come gira il mondo».

 

La sua attività come staff photographer ha termine nel dicembre 1950, pochi mesi prima il suo esordio come regista indipendente con il cortometraggio Day of the Fight (t.l. Il giorno del combattimento), che riprende e rivisita “Prizefighter”, uno dei suoi reportages fotografici per “Look”, pubblicato sul numero del 18 gennaio 1949.

 

Per l’adolescente Kubrick gli anni Quaranta sono infatti anche quelli durante i quali, frequentando il Museum of Modern Art (MoMa) e le sale dei circuiti d’essai cittadine, fa il suo incontro con il cinema, sia europeo (con autori come Fellini, Antonioni, Bergman e Ophüls) che “off Hollywood” (con registi quali Welles, Wellman, Hughes, Huston, Chaplin e Kazan), mentre tra le sue letture di questo periodo trovano spazio i classici della teoria cinematografica, in primis Pudovkin e Ejzenštejn, del quale ammira molto Aleksandr Nevskij (1938), pellicola che lo appassiona anche alla musica di Prokofiev.

 

Le otto storie fotografiche principali proposte dalla mostra – per un totale di circa duecento immagini selezionate tra gli oltre dodicimila negativi conservati alla Library of Congress di Washington e al Museum of the City of New York – sono, secondo un ordine cronologico non mantenuto dall’allestimento: La favola di un lustrascarpe (ottobre 1947); Columbia l’università “esclusiva” di New York City (pubblicata con il titolo “Columbia: Its New Head Is Eisenhower” sul numero dell’11 maggio 1948, un servizio per il quale trascorre quasi due settimane presso la prestigiosa università e che comprende un ritratto del nuovo rettore e futuro presidente); Il circo dietro le quinte (“How The Circus Gets Set”, 25 maggio 1948); Mooseheart, la città degli orfani (“Mooseheart: The Child City”, 8 giugno 1948, una serie di scatti relativi ad una scuola professionale dell’Illinois); 1948: nuove ricchezze e nuovi orizzonti di viaggio (“Holiday in Portugal”, 3 agosto 1948, fotografie scattate al seguito della coppia formata da Bill Cook – dirigente di una società farmaceutica – e sua moglie Jan durante la loro vacanza di due settimane in Portogallo, con alcune immagini degli abitanti di Nazaré, antico villaggio di pescatori); Michigan: un’antica università del Midwest (“University of Michigan”, 10 maggio 1949, con ritratti fotografici dei docenti e scatti presi di nascosto di vari ambienti dell’università); Il famigerato Paddy Wagon (“World’s Most Escape-Proof Paddy Wagon”, 27 settembre 1949, alcuni scatti dalla sintassi decisamente cinematografica – interni, esterni, primi piani, dettagli, angolazioni – dedicati al cellulare della polizia “più sicuro del mondo”) e Una debuttante rampante, Betsy von Fürstenberg (“The Debutante Who Went to Work (aka Working Debutante)”, 18 luglio 1950).

 

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Rainer F. Crone, docente di Storia e Teoria dell’arte e dei media del XX e del XXI secolo alla Ludwig-Maximilians-Universität di Monaco di Baviera e curatore della mostra, chiarisce fin dall’inizio del percorso proposto qual è la prospettiva secondo la quale considerare le immagini selezionate e presentate: non certo come “documenti” dell’epoca ma quali “oggetti” della manipolazione del giovanissimo fotografo attraverso la ben determinata condizione data dal lavorare su commissione.

 

Proprio un’affermazione del Kubrick ormai affermato regista, tratta da un’intervista del 1960 poi pubblicata su “The Guardian” del 16 luglio 1999, apre la mostra: «Ho sempre pensato che un’ambiguità credibile, davvero realistica [artistica] [- se possiamo usare un’espressione così paradossale -], costituisca la migliore [più perfetta] forma di espressione. E ciò per diverse ragioni. Prima di tutto, nessuno ama che le cose gli vengano spiegate; nessuno ama che gli venga spiegata la verità di ciò che sta avvenendo. E, cosa forse ancora più importante, nessuno sa veramente cosa sia reale o cosa stia davvero accadendo.

 

Io credo che una vera, [davvero] perfetta ambiguità sia qualcosa che può avere diversi significati, ognuno dei quali ha qualche aspetto di realtà [potrebbe essere vero] e ognuno dei quali, nello stesso tempo, induce l’osservatore a muoversi, emozionalmente, nella direzione in cui desideriamo che egli si muova. Io credo dunque che un’asserzione chiara, letterale e “oggettiva” sia di per sé falsa e non avrà mai il potere che può assumere una perfetta ambiguità» (tra parentesi quadre alcune integrazioni apportate alla traduzione italiana proposta alla mostra e desunte dalla versione originale in lingua inglese reperita sul catalogo della mostra “Stanley Kubrick”, Roma, Palazzo delle Esposizioni, 6 ottobre 2007 – 6 gennaio 2008, p. 37, ndr).

 

Al di là dell’interesse per questa “perfetta ambiguità” che è caratteristica – pensiamo ai suoi lavori da regista – decisamente kubrickiana, la nostra attenzione di osservatori, nonché appassionati sia suoi che di cinema, è stata attratta dal racconto per immagini del viaggio in Portogallo dell’agosto 1948, parecchi scatti del quale hanno un sapore a nostro avviso marcatamente cinematografico, addirittura forse più che nel caso del reportage relativo al “Paddy Wagon”, nonostante il curatore metta a commento di questa sezione, riferendosi ai ritratti dei pescatori di Nazaré, questa frase di Henri Cartier-Bresson: «Per dare un significato al mondo, bisogna farsi coinvolgere dalle scene che compaiono nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione disciplina mentale, sensibilità e senso della geometria. È risparmiando sui mezzi che si arriva alla semplicità dell’espressione».

 

Autorevolezza dell’accostamento a parte, con le loro evidenti tracce di una personale ricerca formale, a noi paiono più un richiamo alla plasticità delle bellissime inquadrature iniziali del già citato Aleksandr Nevskij di Ejzenštejn o, nel caso di alcuni degli scatti che ritraggono i coniugi Cook, alle profondità di campo e alle inquadrature sghembe di wellesiana memoria, dove gli elementi architettonici, laddove non incombono sulla coppia, diventano componente dinamica dell’immagine. Una sfida lanciata a due dei suoi numi tutelari (a distanza e con un altro mezzo) da un caparbio fotografo di vent’anni con una grande passione per il cinema e le sue immagini montate e in movimento, verso le quali stava ormai consapevolmente volgendo il proprio sguardo e la propria professione.