Il 3 novembre 1984, giorno dei funerali di padre Jerzy Popieluszko, tra i seicentomila giovani a dare l’addio al carismatico prete polacco – rapito e ucciso il 19 ottobre da tre funzionari del ministero dell’interno membri del cosiddetto “squadrone della morte”, ritrovato cadavere undici giorni dopo nelle acque della Vistola – c’era uno scout di 16 anni che, rincasando, si domandava: «Io sarò capace di vivere come lui?».



Un adolescente che, dopo il fatidico 1989, sperava che il fervido fermento di quegli anni potesse trovare riscontro nell’arte polacca. Ma così non è avvenuto.

Tempo dopo, nel 2000, quello stesso ragazzo, ormai cresciuto e sposatosi, ascoltava Giovanni Paolo II, il Papa polacco, invitare i giovani a prendere il largo, un’intera generazione per la quale Jerzy Popieluszko erano ormai diventate solo due parole sui manuali di storia. E con loro, le figure e i fatti di quel travagliato periodo della storia del Paese della Madonna Nera di Czestochowa.



Da allora, vista la carriera professionale intrapresa nel frattempo, per Rafal Wieczynski – questo il nome di quel ragazzo, nato a Varsavia il 22 settembre 1968 – e per sua moglie Julita Swiercz Wieczynska raccogliere quell’invito ha assunto una forma e uno scopo ben precisi: per il primo scrivere e dirigere, per la seconda produrre Popieluszko. Non si può uccidere la speranza (2009, 144’), la pellicola che sarà proiettata questa sera alle ore 21.45 in Sala Neri all’interno del programma del XXXI Meeting di Rimini.

Il pubblico presente domenica scorsa all’affollato incontro di presentazione della mostra “Danzica 1980. Solidarność” ha già tributato al regista e alla consorte («Non ci sono molte mogli disposte a ipotecare tutto per permettere al proprio marito di fare un film!») un sincero e convinto applauso. La mostra ripercorre gli eventi legati allo sciopero (ovvero “sosta ingiustificata del lavoro”, in quanto il termine sciopero – come ha ricordato lo stesso Wieczyński – apparteneva allora ad un lessico proibito dall’autorità statale) avviato dai lavoratori dei cantieri navali del porto sul Baltico, che ha rappresentato «qualcosa di più importante di un fatto storico: un paradigma per la vittoria pacifica del bene sul male».



 

A due anni di distanza dalla dolorosissima e sconvolgente pagina riaperta da Andrzej Wajda con Katyń (2007), ecco dunque un altro imponente sforzo creativo e produttivo per il cinema polacco alla cui base ci sono imponenti ricerche documentarie e fotografiche e 250 ore di interviste ai testimoni di quel pezzo di storia, gli anni di Solidarność, in assoluto la prima esperienza di sindacato libero all’interno di un Paese dell’allora blocco sovietico. Sorprende constatare come a breve distanza di tempo l’una dall’altra, dalla Polonia abbiamo visto giungere due meritorie pellicole di grande impatto narrativo a ricordo di altrettanti drammatici eventi che hanno segnato indelebilmente la storia di questa nazione. Insieme alla sorpresa, c’è però il rammarico di come il pubblico italiano abbia dovuto assistere allo sconcertante ripetersi, in entrambi i casi, di una distribuzione nelle sale che possiamo definire più che discutibile.

 

Il film racconta, attingendo di frequente anche a immagini e filmati d’epoca e con un andamento tanto lucido quanto potente (da non scambiare per banalmente didascalico o addirittura agiografico), la vicenda umana di Jerzy Popiełuszko, a partire da alcuni brevi accenni agli anni della sua infanzia, quando, all’età di 6 anni, viene mostrato nel proprio ambiente familiare – in cerca di funghi nei boschi con il padre e in casa con la madre che lo sprona insieme ai fratelli: «Ricorda! Guarda, ascolta, pensa ma tieni la lingua in dispensa! Quando avete paura stringete in mano questo [impugnando un rosario] e il Signore vi proteggerà» – fino al tragico epilogo e oltre, chiudendosi sulle immagini di Giovanni Paolo II inginocchiato in preghiera sulla sua tomba il 14 giugno 1987 («Egli è il patrono della nostra presenza in Europa perché ha offerto la sua vita proprio come Cristo, proprio come Cristo! Come Cristo ha il diritto di cittadinanza nel mondo, ha il diritto di cittadinanza in Europa poiché ha dato la propria vita per tutti noi»).

 

A quasi tre mesi dalla beatificazione di padre Jerzy Popiełuszko – avvenuta domenica 6 giugno 2010, data scelta dalla Chiesa polacca a ricordo della riconquista dell’indipendenza del Paese nel 1989 -, quella offerta questa sera dal Meeting che ha a tema il cuore, “quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi”, è una preziosa occasione per fare memoria della parabola umana e storica di un autentico testimone. Proprio nell’edizione durante la quale, domenica scorsa, è stato ricordato al numeroso pubblico che ha affollato uno dei primi incontri, che «la testimonianza è una modalità di conoscere». Anche perché c’è la possibilità che la domanda che nell’autunno del 1984 quel ragazzo polacco di 16 anni si è posto e non ha voluto eludere possa riemergere anche in questa estate riminese.