«Carl, il vecchietto, ha diverse fonti di ispirazione: Spencer Tracy, Walter Matthau, Richard Widmark e altri grandi attori, soprattutto grandi caratteristi del cinema classico americano. Ma c’è anche il nonno di Jonas [Rivera, il produttore del film, ndr] nel suo modo di raccontare le storie. L’abbiamo studiato a lungo: abbiamo osservato come muoveva la bocca e il corpo, perché le ossa degli anziani diventano fragili e friabili ed è inevitabile che i loro movimenti e la loro postura siano particolari. Il nostro personaggio, quando qualcuno lo chiama, non volta solo la testa, ma si gira con tutto il corpo, esattamente come fanno gli anziani nella vita vera».
La passione per il cinema (e per ciò che ha voluto dire nelle proprie vicende personali) e l’amore per quello che è il proprio lavoro, per la creazione artistica. Ma c’è qualcosa che viene ancora prima, che sta alla radice di questi due sentimenti: la realtà quotidiana, per come si presenta, e lo sguardo appassionato su di essa. Ecco quello che ci sembrano testimoniare queste parole di Pete Docter, il regista – insieme a Bob Peterson – di Up (2009), film che verrà proiettato questa stasera alle ore 21.45 in Sala Neri all’interno del programma del XXXI Meeting di Rimini.
Quanto riportato può già rappresentare un primo e più che aneddotico invito alla (ri)visione dell’ennesimo gioiello cinematografico d’animazione dei Pixar Animation Studios. E, come sempre capita nei loro lavori, c’è anche di più.
«Adventure is out there!», «L’avventura è laggiù!»: questa la prima frase messa sulle labbra, le parole con le quali sono introdotti nell’incipit del film sia l’esploratore Charles F. Muntz sia la giovane Ellie, vale a dire l’idolo di gioventù e la futura compagna di tutta una vita di Carl Fredricksen, avendo rappresentato entrambi, sebbene per motivi e in misura diversi, i due autentici “motori” dell’anziano protagonista, quest’ultimo una sorta di Walt Kowalski – il personaggio al centro di Gran Torino (2008, Clint Eastwood), pellicola riproposta lo scorso anno proprio a Rimini – del cinema di animazione.
Un’opera che, visto il tema scelto dal Meeting di quest’anno – “Quella natura che ci spinge a desiderare cose grandi è il cuore” –, non poteva capitare più a proposito. Già in quella precedente – WALL•E (2008, Andrew Stanton) – la squadra capitanata da John Lasseter, Leone d’oro alla carriera alla scorsa Mostra di Venezia, ci aveva abituato a prendere il volo (e che volo!) con il protagonista di turno. Stavolta l’odissea non è più nello spazio ma sulla terra, in un percorso di scoperta e conoscenza (innanzitutto di sé) che davvero ricorda da vicino quello descritto da Eastwood nel suo film.
Sogni, attese, speranze, in definitiva il “desiderio di cose grandi”, prima ingenuamente presentiti e poi fedelmente condivisi dentro un legame che è per tutta la vita, fino a quando il “limite ultimo” sembra spezzarlo in un modo che pare definitivo, lasciando solamente solitudine e rimpianti (è stato scritto che «[f]orse era dai tempi di Bambi che un cartoon occidentale non raccontava una morte, a inizio film, in maniera così sofferta e poetica»). Le “cose da fare” in quella sorta di diario di bordo redatto fin dall’infanzia da Ellie sono pagine che Carl non ha mai sfogliato perché le immaginava vuote, “in-compiute” e quindi piene solo di qualcosa di cui dolersi. E invece quella comune base di partenza, quel “cuore” che in Muntz – l’uomo che pure aveva affascinato e destato i sogni giovanili dei Fredricksen – si è ripiegato in ossessione pronta a sfociare nella violenza («È pazzesco: l’eroe della mia infanzia che cerca di ucciderci! Che barzelletta!»), in Ellie si rivela – con grande sorpresa di Carl – compiuta felicità e feconda eredità da comunicare al proprio compagno («Grazie per questa bella avventura. È tempo per te di viverne una nuova! Ti amo, Ellie»).
Uno dei poeti più visivamente lirici (e ardui) della macchina da presa, Andrej Tarkovskij, in occasione di una conferenza tenuta nel luglio 1984 alla St. James Church di Londra, due anni e mezzo prima di morire, affermava che «la crisi culturale degli ultimi cento anni ci ha portato al fatto che un artista può fare a meno dei concetti spirituali e la creazione artistica è un istinto qualunque. […] L’uomo ha iniziato a considerare il talento che gli è stato donato come un suo bene personale. Ciò gli ha dato il diritto di pensare che l’arte non chieda nessuna responsabilità da parte dell’artista né, allo stesso modo, del suo talento. […] In breve, l’arte si trasforma o in qualche ricerca formale o, semplicemente, in merce per la vendita».
Colpisce davvero il fatto che questa sera, sotto i padiglioni della Fiera Nuova di Rimini, toccherà in definitiva ad un’evoluzione dei familiari, cosiddetti “cartoni animati” metterci sull’avviso contrario.
Buona visione a quanti potranno e vorranno (ri)cimentarsi con questa sorprendente ora e mezza di grande cinema.