Quando alla fine del 1945 fu chiesto a diversi registi di Hollywood di montare in un documentario il materiale girato mesi prima in Germania durante la liberazione dei campi di sterminio nazisti, la risposta fu unanime: non si può fare. Gli stessi registi, coordinati da Frank Capra, avevano già realizzato una serie di documentari titolata Why We Fight, dove le battaglie ed i morti veri erano pressoché indistinguibili dalla guerra finta dei film girati in studio. Ma quello che di inspiegabile, assurdo, inguardabile la macchina da presa aveva registrato nei campi nazisti non poteva proprio diventare nulla di fittizio, manipolato o ricostruito: restava per sua natura un documento puro. Materiale filmato con cui non era possibile effettuare un montaggio, contrapporre punti di vista diversi, operare dei tagli, scegliere cosa mostrare e cosa no. Esso poteva solo rimanere intatto nella sua greve violenza.
La verginità dell’immagine classica veniva così compromessa per sempre. Si può perfino arrivare a sostenere che la transizione dal cinema mimetico della narrazione classica a quello moderno dello sguardo, avvenuta a balzi tra la gli anni quaranta e l’inizio dei sessanta partendo dalle opere di autori come Jean Renoir, Orson Welles ed Alfred Hitchcock per arrivare al neorealismo italiano ed alla nouvelle vague, abbia avuto un momento chiave in quelle nude e crude immagini dei campi nazisti della seconda guerra mondiale. Dopo avere rappresentato cotali orrori, l’immagine in sé non poteva più essere quella della finzione aurea e della trasparenza del cinema classico. In quegli anni essa ha così conosciuto una sorta di forte shock, poi diventato un punto di non ritorno nella storia dell’audiovisivo in genere, e del cinema di finzione in particolare.
Ora, qualcosa di simile è successo dopo l’11 settembre 2001. L’evento è ancora troppo a noi vicino per dare giudizi definitivi, ma pare proprio che l’effetto su alcuni autori di spicco della cinematografia mondiale sia stato il medesimo. Le immagini delle Twin Towers in fiamme hanno prodotto un po’ in tutti una sorta di straniamento, un senso di impotenza nei confronti di un evento difficile da comprendere. E il persistere reiterato di quelle immagini nelle tv di tutto il mondo ha solo amplificato all’ennesima potenza questi sentimenti collettivi.
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Ancora una volta immagini shoccanti hanno dato il là ad una riflessione sulla natura più profonda dell’immagine in sé, e sulle modalità con cui quella artefatta (il cinema) ci possa mostrare il mondo e la società di oggi. Tutto ciò ha indotto i cineasti più attenti e sensibili a registrare questo cambio di rotta nelle loro opere, essendosi resi conto che il proprio cine-sguardo – dopo l’impatto mediatico dell’11 settembre – non poteva più essere lo stesso. Sono così usciti film di vario tipo, sia rivolti al grande pubblico che al limite della sperimentazione pura, però tutti segnati, chi più chi meno, da alcune caratteristiche comuni: l’abbandono delle tradizionali coordinate spazio-temporali del racconto filmico e la rinuncia ad univoci punti di vista per inquadrare – anche in senso lato – le cose e le persone.
In questo senso, il caso più eclatante ed emblematico è di certo quello del regista statunitense Gus Van Sant. Questi è a New York la fatale mattina dell’11 settembre, e rimane shoccato da ciò che vede forse più di altri. Autore fino a quel momento di film narrativi di buon stampo hollywoodiano, tra i quali spiccano Will Hunting – Genio Ribelle (1997), il remake di Psycho (1998) e Scoprendo Forrester (2000), dopo la fatidica data cambia drasticamente direzione, soprattutto dal punto di vista stilistico. Il film successivo, Gerry (2002, inedito in Italia), ne è la prova evidentissima.
Due amici arrivano in auto fino ad una zona desertica, lasciano l’auto e si inoltrano a piedi per cercare una certa “cosa”, non precisata e poi dimenticata nello scorrere del film. I due vagano nel deserto chiamandosi a vicenda col nomignolo Gerry, si separano e poi ancora si ritrovano, passano dei giorni non si capisce quanti, non succede nulla (in circa 100 minuti di film i dialoghi ne coprono a mala pena 10), poi uno dei due ammazza l’altro, torna verso la strada, trova un passaggio in auto e ritorna alla civiltà.
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Il tutto guardato con lunghi piani sequenza, sia a seguire i due Gerry che a inquadrare un orizzonte desertico, aspro, lontano ed indefinito. Appunto: è la sapiente messa in scena della (temporanea) perdita di orizzonti seguita all’11 settembre. I due film successivi completano quella che i più attenti critici hanno chiamato “trilogia della morte”: Elephant (2003), capolavoro che si aggiudica la Palma d’Oro a al Festival di Cannes, e Last Days (2005), discusso film ispirato agli ultimi giorni di vita del musicista grunge Kurt Cobain.
Qui Van Sant, proprio in queste prime opere successive al “fattaccio”, rivede radicalmente la sua idea di cinema ridefinendo il suo stile: uso massiccio del piano sequenza, situazioni narrative dilatate e ripetute, sovrapposizione dei piani temporali, diversi punti di vista per giungere allo stesso luogo spazio-temporale, il tutto per dire: ho perso le coordinate (Gerry), non so più bene come guardare al mondo contemporaneo, alle persone che lo popolano, cosa dire sulle cose che vi accadono (Last Days), non capisco da dove sbuchi il male che c’è nel mondo, perché degli adolescenti massacrino dei propri coetanei apparentemente per gioco (Elephant), non so dare giudizi sui buoni e sui cattivi, non capisco più chi siano gli uni e chi gli altri.
Così il fatidico 11 settembre potrebbe aver aperto una nuova, ulteriore fase della storia del cinema. Gli eventi e le opere ancora si devono storicizzazione per consentirci di esprimere un effettivo giudizio in merito, ma pare che la direzione sia proprio quella. Dopo il cinema delle origini, la classicità, la modernità e la contemporaneità, che cosa si è appena affacciato nel cammino storico della settima arte ? Non è facile a dirsi ora; si spera solo che le nuove tecnologie digitali vengano adeguatamente asservite all’arte cinematografica, e non si faccia che quest’ultima diventi invece un loro illustrissimo ostaggio.