Cinquantacinque anni fa, la sera di sabato 10 settembre 1955 – periodo nel quale era ancora consuetudine concludere con un sontuoso ricevimento ufficiale nella splendida cornice dell’Hotel Excelsior al Lido di Venezia – si spegnevano i riflettori sulla XVI edizione della più prestigiosa manifestazione cinematografica non solo italiana ma anche, a quel tempo, mondiale. Dal palco del Palazzo del Cinema l’allora direttore del Festival, Ottavio Croze, proclamava vincitore del massimo riconoscimento, il Leone d’oro di San Marco, il film Ordet del regista danese Carl Theodor Dreyer.

Per amore di cronaca va ricordato che la formula di premiazione recitava un più sibillino «all’opera e alla vita d’artista di C.T. Dreyer e a Ordet». Una frase significativa, tenuto conto che, tra il pubblico e i giornalisti presenti, non poche persone consideravano la pellicola in questione un’opera minore di un grande vecchio (il regista – nato a Copenaghen il 3 febbraio 1889 – aveva all’epoca 66 anni), ormai arrivata fuori tempo massimo rispetto alla propria carriera dietro la macchina da presa e alla storia del cinema in generale.
 

Ad ogni modo una sfumatura che sembrava dare credito al sentimento generale, secondo il quale il vincitore di quell’edizione doveva essere Il grande coltello (The Big Knife), amara parabola di un attore di successo che viene schiantato dal cinismo dell’industria del cinema, una delle prime (e autorevoli) prove registiche dell’americano Robert Aldrich. Il film era stato invece premiato con uno dei quattro Leoni d’argento mentre il suo autore l’anno successivo si sarebbe portato a casa l’Orso d’oro per la miglior regia al Festival di Berlino con Foglie d’autunno (Autumn Leaves, 1956).
 

Torniamo però a Ordet, che il tempo – come ora sappiamo – confermerà in seguito come uno dei capolavori del maestro danese (qui alla sua penultima prova, prima del «folle» Gertrud datato 1964) e quindi della settima arte.

Secondo Morando Morandini – che altrove ha definito Carl Theodor Dreyer «uno dei pochissimi artisti del Novecento, di qualsiasi arte, che possano dirsi cristiani» – questa pellicola «è un’opera di liturgica e solenne bellezza, girata quasi per intero in interni in un’astratta dimensione spazio-temporale che non esclude né l’approfondimento dei personaggi né la cura dei particolari».

Tratto dal dramma teatrale La parola (1942) di Kaj Munk, il film si svolge nel 1930 in un piccolo villaggio danese nella regione dello Jutland, dove si fronteggiano i due capifamiglia Borgen e Petersen, separati dalla rispettiva appartenenza ad un’opposta fede religiosa. Petersen, per questo motivo, pare non voler sentire ragioni negando la mano della giovane figlia Anna al rampollo minore di Borgen, Anders. Quest’ultimo ha altri due fratelli, Mikkel e Johannes. Il primo ha perso la fede religiosa del padre, diventando ateo, ed è sposato ad Inger, dalla quale sta per avere il terzo figlio.
 

Il secondo, che sembra abbia perso il nume della ragione a causa di studi teologici troppo intensi, parla di sé come del redivivo Gesù Cristo. Quando Inger muore per complicazioni legate al parto, Johannes scompare. Davanti alla bara ancora aperta della nuora di Borgen, come segno di definitiva riconciliazione a fronte di una sciagura così grande, Petersen acconsente al matrimonio tra Anders e Anna. Johannes, ormai rinsavito, torna alla casa paterna, entra nella stanza e compie quel miracolo che nessuno dei presenti, nella propria «tiepida» fede, aveva osato chiedere.

 

Al di là dell’ammirazione che si può portare verso i «classici» della storia del cinema, nel tentare di descrivere le due ore di racconto per parole, suoni e immagini che precedono la potente scena conclusiva, potremmo definire la visione di Ordet come qualcosa frutto di un lavoro sinceramente umano, un’opera che raggiunge una grandezza, una «monumentalità» che non sono solo formali, un’esperienza cinematografica ardua e appagante, proprio come – per citare, parafrasandolo, Jean-Luc Godard a proposito di Gertrud, l’impressionante film-testamento del regista – l’ascolto di uno degli ultimi quartetti d’archi di Beethoven. Anzi: proprio come la vita. «Amo profondamente la vita, tutti gli esseri veramente vivi. E i miei film vogliono essere una serena meditazione, una serena meditazione sul grande mistero della vita, non sulla morte, negazione della vita».

 

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