Il genere horror arriva al cinema direttamente dalla letteratura. Già negli anni Venti del Novecento diversi autori, sia delle avanguardie europee come della nascente industria hollywoodiana, si accorgono che il cinema, nella sua accezione fantastica, si adatta molto bene nell’illustrare e raccontare storie di fantasmi, streghe e vampiri, di cui la letteratura gotica dell’Ottocento europeo abbonda.

Queste figure dell’orrore, come il vampiro del Dracula di Bram Stoker, la creatura del Frankenstein di Mary Shelley e lo schizofrenico protagonista de Lo Strano Caso del Dr. Jekyll e del Sig. Hide di Robert Louis Stevenson, rappresentano – semplificando – altrettante metafore del destino riservato all’uomo che si allontana dal volere di Dio. Solo il cinema ha saputo mostrarle secondo forme e ombre (magiche) che le hanno rese, come immaginato dai loro autori letterari, veramente immortali.

Tutti e tre i classici citati hanno infatti conosciuto un’ampia trasposizione cinematografica: il solo Dracula vanta oltre sessanta diverse pellicole al suo attivo, a partire dal capolavoro dell’espressionismo tedesco Nosferatu, eine Symphonie des Grauens (F.W. Murnau, 1922), passando per quell’altro capolavoro del cinema onirico e fantastico quale è Vampyr di Carl Theodor Dreyer (1932), fino a film di autori contemporanei come Dracula di Bram Stoker (F. Ford Coppola, 1992).

L’horror cinematografico si fonda sull’idea di confine, inteso come limite oltre il quale si trovano l’ignoto, l’inquietudine e, appunto, l’orrorifico. Esso è il luogo della narrazione filmica dove questo confine si fa labile, indeterminato. L’horror è quindi definibile come il genere che lavora sul – e gioca col – confine, spesso sottile, che separa la vita dalla morte, il bene dal male, il normale dall’anormale, il sano dal malato, il grazioso dal mostruoso e, in ultima analisi, noi da tutti gli altri.

La pratica messa in scena di tale confine risulta, nell’horror classico soprattutto, di grande impatto visivo. Spesso, attraverso un abile uso del fuori campo, l’orrore perturbante è solo suggerito e non mostrato, secondo una cifra stilistica che tocca le corde del fantastico, del surreale e dell’onirico come solo il cinema può fare, e che concorre a produrre il fascino e la suspense tipiche di queste storie.

Negli anni le figura fondanti del genere, i vampiri e le altre creature del romanzo gotico, sono state a volte rivisitate e sviluppate, altre accantonate. Nel cinema moderno, la questione principale è diventata quella del “come” mettere in scena l’orrore, l’inquietudine e la paura; con esso è iniziato il processo di normalizzazione del confine su cui il genere lavora. L’orrore cinematografico si è così arricchito, nei suoi esiti migliori, di un impianto espressivo multiforme, che ha fatto dell’horror l’unico tra i grandi generi nati con le origini del cinema a non essersi ancora esaurito.

 

Questo probabilmente perché esso è il più voyeuristico di tutti, per sue caratteristiche intrinseche, quindi un qualcosa di connaturato all’essenza stessa del cinema. Come dire: mostra il mostro con la macchina che racconta mostrando, ovvero mostra raccontando (il cinema): ecco perché il genere horror non morirà mai. Da notare, inoltre, come tale genere sia forse quello che meglio si presta alla parodia e alle altre varianti di tipo comico e grottesco. Basti ricordare solo tre magnifici film, uno per ognuna delle figure fondanti (nell’ordine: il vampiro, la creatura e il doppio): The Fearless Vampire Killers (R. Polanski, 1967), Frankenstein Jr. (M. Brooks, 1974), The Nutty Professor (J. Lewis, 1963).

 

Inaugurato dal film I Vampiri (R. Freda, 1957), il genere horror nel cinema italiano è sempre stato ai margini: non troviamo nessun grande autore dei nostri che abbia fatto un film importante ascrivibile a questo genere. Il solo Fellini vi si è avvicinato un poco con Giulietta degli Spiriti (1965), e di più con l’episodio Toby Dammit del film Tre Passi nel Delirio (1967), tratto da Edgar Allan Poe. Anche negli anni più recenti, non abbiamo conosciuto autori importanti che abbiano utilizzato il genere (horror) per veicolare una propria poetica visione del male e della vita, come accaduto per esempio con l’opera di David Cronenberg o David Lynch, o come fece Michael Powell nel suo ultimo film L’Occhio che Uccide (1960), mirabile quasi isolato esempio di horror meta-cinematografico.

 

Dall’esordio ricordato, il cinema italiano ha lavorato sul genere horror solo con b-movies quasi anonimi o con film molto commerciali, seppure spesso interessanti, come ad esempio quelli di Dario Argento. In tale panorama la cinematografia di Mario Bava ha costituito, in buona parte, una importante eccezione.

 

Figlio di Eugenio Bava, capostipite degli effetti speciali fotografici, autore di quelli del celebre Cabiria (G. Pastrone, 1914), Mario Bava, dopo gli studi di pittura, lavorò prima come assistente del padre e poi come operatore cinematografico a Cinecittà. Dal 1946 ha alternato l’attività di direttore della fotografia e operatore (anche per Rossellini, De Sica e, nientemeno, Georg Wilhelm Pabst) con quella di documentarista.

Nei primi anni Cinquanta passò all’attività di assistente alla regia lavorando, tra gli altri, anche con Jacques Tourneur e Riccardo Freda. L’iniziazione al genere horror l’ebbe quindi sul set del già ricordato I Vampiri, quando dovette terminare (non accreditato) le riprese del film, abbandonato da Freda per fatali incomprensioni con la produzione.

 

Il suo capolavoro fu anche il suo (vero) esordio alla regia: racconto gotico di immenso fascino visivo, La Maschera del Demonio (1960) è rimasto a oggi il migliore incontro tra cinema d’autore e genere horror di tutta la cinematografia italiana. In questo film Bava è riuscito a mostrarci una paura indefinibile, pericolosa e attraente, di dimensione quasi onirica e incantevole, fotografata con uno splendore formale capace di dare sostanza alla morbosa attrazione per il male e all’ambiguità di cui in esso si narra. Il film va ricordato anche per l’esordio italiano dell’attrice inglese Barbara Steele, allora giovane di notevole e particolare fascino, poi diventata la regina del nostro cinema horror-gotico anni Sessanta e Settanta.

 

Dopo di allora, Mario Bava ha avuto una carriera composta quasi per intero da film horror o thriller, diversi dei quali, anche per la loro forza visiva e le originali soluzioni registiche, sono da considerarsi capostipiti di filoni tematici ripresi poi dai principali registi italiani dei generi suddetti, come Argento, Corbucci e lo stesso Freda. Soprattutto, ci si riferisce a film come La ragazza che Sapeva Troppo (1962), che inaugura il thriller all’italiana, Sei Donne per l’Assassino (1964), ispirazione non dichiarata per alcuni gialli deliranti degli Argento & C., e Reazione a Catena (1971), un’avvincente splatter condito da humour nero che se “fosse stato girato in America sarebbe diventato un cult-movie”.

 

Invece, Mario Bava è stato l’indiscusso maestro del cinema horror italiano, secondo capacità registiche di certo paragonabili a quelle dei principali autori del nostro cinema, moderno e contemporaneo.