Quando nel giugno 1985, con il collega Isao Takahata (che non è però un disegnatore come lui), fonda un proprio studio perché si specializzi in prodotti cinematografici di animazione per il grande schermo aggirando le ristrettezze economiche e di tempo che caratterizzano il settore degli anime – i disegni animati giapponesi – televisivi, lo battezza con il nome Ghibli. Ma il caldo, secco ed impetuoso vento di Sud-Ovest che sferza durante l’estate la Libia, nelle sue intenzioni, vuole essere – al di là di un augurio di rinnovamento per l’industria del cartoon locale – un esplicito omaggio all’Italia e alla propria passione per il volo. Questo è infatti anche il nome dato al bimotore Ca. 309 uscito dalle officine della Caproni Aeronautica Bergamasca a partire dal 1936, utilizzato dal nostro esercito come ricognitore e bombardiere leggero in Africa settentrionale durante la Seconda guerra mondiale e, quel che più importa, da lui considerato uno degli aerei più belli mai costruiti e simbolo dell’eccellenza del design italiano.



Lui anni fa è stato definito dal suo grande amico ed estimatore John Lasseter, pioniere della moderna animazione digitale e autentico faro della Pixar, come «il più grande animatore, anzi il più grande regista vivente» mentre nel 2005, in occasione della 62ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è stato gratificato di un Leone d’oro alla carriera. Stiamo parlando del maestro del cinema d’animazione giapponese Hayao Miyazaki, che, nato il 5 gennaio 1941 in un sobborgo di Tokyo, domani taglierà il traguardo dei settant’anni. Un autentico gigante il cui nome – anche se scoperto relativamente tardi al di fuori dei patri confini, a dispetto della sua fervida e premiata attività – oggi non sfigura tra quelli dei più grandi registi viventi: a sentire un altro nipponico di rango, Akira Kurosawa (1910-1998), «credo che apparteniamo entrambi alla stessa scuola; condividiamo lo stesso rigore e lo stesso gusto per le storie umane su grande scala. Tuttavia provo un certo fastidio quando i critici accomunano i nostri lavori. Non si può sminuire l’importanza dell’opera di Miyazaki paragonandola alla mia».

Non potendo che limitarci alle sole opere pensate e realizzate per il grande schermo, vorremmo almeno citare tra le serie televisive di cui ha curato gli episodi – integralmente o in parte – come regista la prima serie (1971, 23 episodi) e la seconda serie (1980, 155 episodi) di Le avventure di Lupin III (Rupan Sansei (Kyuu)), i 26 episodi di Conan: il ragazzo del futuro (Mirai Shonen Conan, 1978) e i 24 episodi di Il fiuto di Sherlock Holmes (Meitantei Holmes, 1984). È l’antieroico ladro a fornire a Miyazaki, alla fine degli anni Settanta, l’occasione per il suo debutto nel lungometraggio: Lupin III e il castello di Cagliostro (Rupan sansei: Kariosutoro no shiro, 1979), per unanime riconoscimento della critica il più bello dei sei film con al centro il (presunto) discendente del celebre Arsenio, «la rocca sulla quale poggiano la fama e il successo di Miyazaki», viene premiato a Cannes come miglior lungometraggio di animazione.

Seguono Nausicaä della valle del vento (Kaze no tani no Naushika, 1984), un notevole successo sia di critica che di pubblico e con numerosi premi all’attivo raccolti in festival esteri, tale da permettere a Miyazaki e Takahata di creare la già citata casa di produzione; Laputa il castello nel cielo (Tenku no shiro Ryaputa, 1986), un altro capolavoro che non riesce però a riscuotere gli entusiasmi ed il seguito del precedente; Il mio vicino Totoro (Tonari no Totoro, 1988), un film i cui incassi in patria non arrivano a coprire nemmeno le spese di realizzazione ma il cui protagonista diventa il marchio di fabbrica dello Studio in quanto i suoi pupazzi vanno inspiegabilmente a ruba nei negozi salvandone così le sorti; Kiki – Consegne a domicilio (Majo no Takkyubin, 1989), l’adattamento dell’omonima favola di Eiko Kadono che trova come fondamentale sponsor un colosso nipponico delle consegne a domicilio; Porco Rosso (Kurenai no buta, 1992), che diventa il suo titolo di maggior successo – almeno fino a questo momento – e vince il Festival di animazione di Annecy nel 1993; e Principessa Mononoke (Mononoke Hime, 1997), un progetto che Miyazaki sogna di mettere in immagini da quasi vent’anni.

Sulla scorta di tre anni di lavorazione, dell’ausilio di 140.000 disegni e della voce – pare fatta circolare dallo stesso autore – secondo la quale questa sarebbe stata la sua ultima fatica da disegnatore, il film («una delle saghe d’animazione del Sol Levante più articolate, poetiche, avvincenti e adulte») si svolge in Giappone nell’era Muromachi (1336-1568), all’epoca dell’estrazione e della lavorazione dei metalli, e racconta la mortale lotta tra Uomo e Natura, scontro nel quale le divinità della seconda si ribellano all’invadente forza civilizzatrice del primo. Distribuita nelle sale giapponesi nel luglio 1997 (in Italia giunge solamente nel maggio 2000), l’opera è campione di incassi diventando la prima pellicola a superare la soglia dei 100 milioni di dollari – un record per un’opera proveniente dal mercato interno – “doppiando” Il mondo perduto – Jurassic Park (The Lost World – Jurassic Park, 1997, Steven Spielberg) e togliendo il primato assoluto a E.T. l’extra-terrestre (E.T. the Extra-Terrestrial, 1982, Steven Spielberg).

Per chi all’estero ancora dubita della statura di Hayao Miyazaki, quattro anni dopo ecco arrivare La città incantata (Sen to Chihiro no kamikakushi, 2001), il viaggio fantastico della piccola ma sorprendente Chihiro in un mondo parallelo abitato da demoni e dei: altri tre anni di lavoro, 1145 inquadrature, 150 disegnatori all’opera, 122 minuti di durata e altro record di incassi infranto (oltre 200 milioni di dollari) senza dimenticare l’Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2002 (ex-aequo con Bloody Sunday di Paul Greengrass) e il premio Oscar per il miglior film d’animazione nel 2003. Secondo il suo autore «il film è un’avventura, in cui la protagonista impara a vivere e diventa adulta, superando i mille tranelli di un mondo fantastico, ma ambiguo come quello reale». Autore che durante la lavorazione, assolutamente contrario alla tecnologia che pregiudica la fantasia, ha accettato, riducendolo al minimo indispensabile, l’intervento della Computer Graphic (CG) per l’animazione delle onde e il dinamismo delle sequenze ma omaggiando l’amico John Lasseter con l’inserimento di una lampada saltellante, evidente richiamo al marchio Pixar.

Quanto segue quella che rappresenta agli occhi della critica e delle platee di tutto il mondo come la sua definitiva consacrazione – riconoscimento veneziano alla carriera incluso – è storia davvero recente: Il castello errante di Howl (Hauru no ugoku shiro, 2004), che racchiude la quintessenza della ricchezza e del fascino dell’universo miyazakiano e liberamente ispirato al libro Il castello magico di Howl (Howl’s Moving Castle, 1986) della scrittrice inglese Diana Wynne Jones; Ponyo in cima alla scogliera (Gake no ue no Ponyo, 2008), film solo apparentemente più “semplice” ed immediato del precedente; e il futuro Porco Rosso 2 (Kurenai no buta 2), attualmente in pre-produzione e dato in uscita nel 2012.

Solo l’ultima, in ordine di tempo, tra le meravigliose realizzazioni di un «uomo senza memoria» che ancora si ostina ad intraprendere nuove mirabili creazioni senza l’ausilio di alcun tipo di sceneggiatura: «Quando iniziamo la produzione non esiste una sceneggiatura; disegno i primi storyboard e non so mai dove mi porteranno i personaggi e come si svilupperà la storia. D’altra parte io non sono un narratore, ma un disegnatore». “Disegnatore” al quale auguriamo di appendere al chiodo la propria matita il più tardi possibile.