Usciva cinquant’anni fa negli Usa (5 ottobre 1961) un piccolo film destinato a diventare uno dei più visti e conosciuti dell’intera storia del cinema. Un autentico cult, se non assoluto, di certo relativo al sotto-genere della commedia sentimentale: Colazione da Tiffany di Blake Edwards.

Tratto dall’omonimo romanzo di Truman Capote, il film doveva essere una commedia sofisticata con vaghi accenni di denuncia sociale, priva di lieto fine. Infatti, il romanziere aveva previsto di affidare il ruolo della protagonista, la signorina Holly Golightly, a Marylin Monroe, e la regia al semi-esordiente John Frankenheimer. Facile esprimersi a posteriori, ma oggi ci rallegriamo che i vertici della Paramount Pictures imposero, invece, un regista di prim’ordine tra gli adepti della screwball comedy e un’attrice di tutt’altro tipo. L’incantevole immagine di Audrey Hepburn – allora trentaduenne – nei panni dell’eccentrica, graziosa e sbarazzina Holly, basta da sola a giustificare l’immensa fama del film.

La materia del romanzo era, a tratti, troppo scabrosa per una commedia hollywoodiana di quegli anni. Lo sceneggiatore George Axelrod la ammorbidì, astraendone con arguzia lo spirito ribelle e indifeso della protagonista, attorno alla quale il bravo Edwards mise in scena una commedia che, prima di scadere in eccessivo sentimentalismo, arriva a toccare con intelligenza le corde del sarcasmo e del non-sense. Questi ultimi soprattutto, oltre alla già omaggiata immortale immagine della Hepburn, contribuirono al grande successo del film.

Holly Golightly è una giovane ragazza spontanea, di fascino semplice, un po’ eccentrica, che vive a New York. Frequenta l’alta società facendo la prostituta d’alto bordo, cercando così una sistemazione ai suoi cronici problemi di soldi, possibilmente con un ricco matrimonio. Arriva nel suo palazzo il giovane Paul Vasrjac (George Peppard), affascinante scrittore in crisi di ispirazione, mantenuto da una ricca donna più anziana di lui. Tra i due nasce un’intesa, l’estroversa Holly coinvolge Paul nelle sue mattane.

Lui, assecondando il nascente sentimento per la ragazza, trova il modo di rimettersi a scrivere e riscattarsi dall’amante padrona. Lei si sforza di non corrisponderlo: sotto l’apparente spensieratezza, nasconde la tristezza di un’infanzia dura e senza affetti, che Paul prima intuisce e poi trova confermata nei racconti del dottor Golightly, allevatore texano ex marito e benefattore di Holly. Dopo alterne vicissitudini (tra cui la morte dell’amato fratello di Holly), i due si ritrovano per l’immancabile lieto fine, sancito dal celeberrimo bacio sotto la pioggia battente di New York.

Come detto, il film è una versione addolcita del sagace romanzo di Capote. In esso, lo scrittore Paul Vasrjac – figura vagamente autobiografica – rammenta tutta la sua esperienza con la svitata Holly in flash-back, chiedendosi fin dall’inizio dove sia lei ora, e se mai si rivedranno. Perché nel libro non c’è traccia del lieto fine amoroso del film: Holly alla fine parte per il Sudamerica verso altre non precisate avventure. Mentre nel film non c’è traccia della fugace relazione omosessuale tra Holly e la modella Mag Wildwood (che qui fa solo una breve apparizione), come della sua gravidanza interrotta da un’intenzionale caduta da cavallo.

Personalmente, conoscendo bene anche il romanzo da cui il film è tratto, non saprei quale dei due preferire. Il fatto è facilmente spiegabile: ognuno è costruito con il “taglio” giusto rispetto sia al proprio genere che al proprio mezzo espressivo. Esplicativa in tal senso è la diversa scelta circa lo scioglimento del finale. Una commedia come questo film, in parte screwball (la migliore) e in parte sentimentale, esige per sua compiuta forma un lieto fine, senza il quale il genere sarebbe monco, e gli spettatori resterebbero malamente delusi, se non inferociti. Il romanzo, invece, se terminasse con lo stesso lieto fine del film sarebbe da annoverare tra i peggiori Liala della storia, mentre la forma nostalgica a flash-back, narrata con affettuoso distacco e finale sospeso, gli conferisce l’aurea dell’alta letteratura.

Il film offre quindi lo spunto per affermare, una volta di più, quanto siano distanti tra loro cinema e letteratura. Molto di più di quanto il senso comune possa conoscere, visto che l’offerta odierna contempla quasi esclusivamente film di puro intrattenimento. Vale forse la pena rammentare che il cinema non è nato per raccontare alcunché, mentre la letteratura racconta per sua natura. Il cinema è nato come un puro e semplice sguardo (su qualcosa e/o qualcuno): le migliori opere, da sempre, sono quelle che, oltre la smania di raccontare, tengono in debito conto questa originaria peculiarità, e la utilizzano anche a fini narrativi. Non solum sed etiam.

Da non dimenticare, infine, un altro elemento che concorse al successo del film: la canzone “Moon River, musicata dal maestro Henry Mancini, nella quale la sublime linea melodica riesce a catturare, quasi accarezzandolo, l’autentico animo profondo, spaurito e sincero della protagonista: è questo il vero capolavoro del film. Soleva dire la stessa Audrey Hepburn che “per me, le uniche cose che contano sono quelle che hanno a che fare col cuore”, e Colazione da Tiffany lo è certamente, un affare di cuore, ancora oggi per milioni di spettatori vecchi e nuovi. Inesorabile immortale potenza della settima arte.