Sosteneva Josef Goebbels, Ministro della propaganda del Terzo reich nazista, che una bugia ripetuta molte volte con forza ed enfasi diviene verità, e alla lunga si sostituisce a essa. Fu il primo a comprendere, e a sperimentare a proprio uso e consumo, il ruolo fondamentale dell’informazione nel piegare il consenso popolare al sostegno incondizionato del principe di turno. Sappiamo come il suo sacro zelo si spinse fino a escogitare sfarzosi mezzi di propaganda per mitizzare la figura del Fuhrer, con indubbio grande successo. Tutto ottenuto col solo metodo della menzogna scientifica, amplificata all’infinito.

La questione della divisione dei poteri di uno Stato o città-Stato come panacea contro gli abusi è vecchia come le civiltà occidentali e la loro cultura, ne speculava già Platone ai tempi della Grecia classica. La sua attuale formulazione si informa, però, delle riflessioni di John Locke (Due Trattati sul Governo, 1690) e del filosofo giurista francese Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu. Sosteneva quest’ultimo, nel suo Spirito delle Leggi (1748), che “chiunque abbia potere è portato ad abusarne; egli arriva sin dove non trova limiti […]. Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere”. Arresti, si intende, non in senso penale, precisazione non superflua per un lettore italiano contemporaneo. Quindi: libertà di informazione e suo ruolo in una democrazia compiuta, quella dove i conflitti di interessi – naturali nel capitalismo – sono limitati da una netta divisione dei poteri dello Stato.

Sono questi i cardini tematici di Tutti gli Uomini del Presidente (All the President’s Men), film di Alan J. Pakula del 1976 con Robert Redford e Dustin Hoffman, che riporta la cronistoria dell’inchiesta giornalistica che fece emergere il celebre scandalo Watergate. Si narra, anzi, che fu lo stesso Redford a incoraggiare i giornalisti del Washington Post Bob Woodward e Carl Bernstein, autori della campagna di stampa, a raccontare tutta la vicenda del Watergate in un libro, al fine di poterne trarre un film. Il libro che dà titolo e soggetto al film venne così alla luce nel 1974, e valse ai due cronisti anche il premio Pulitzer.

Giugno 1972, cinque uomini vengono arrestati e accusati di furto perché colti nottetempo nella sede del partito Democratico, sita negli uffici del Watergate Hotel di Washington. All’udienza del giorno seguente è presente il cronista giudiziario del Washington Post Bob Woodward (Redford), che fiuta qualcosa di anomalo nel fatto che tra gli imputati ci sia un ex agente della Cia, e che gli stessi abbiano trovato il tempo per nominare un avvocato difensore diverso da quello assegnato d’ufficio. Insospettito, avvia con il collega Carl Bernstein (Hoffman) un’indagine negli ambienti contigui al partito Repubblicano, nelle attività del Comitato per la rielezione del Presidente in carica Richard Nixon e tra alcuni funzionari e collaboratori di Cia, Fbi e Casa Bianca.

I due si addentrano così nei bui corridoi del Potere, arrivando fino alla scoperta di ingenti fondi neri raccolti presso lo stesso Comitato, gestiti da personalità vicinissime al Presidente al fine di sabotare la campagna elettorale del partito Democratico. Tutta l’inchiesta, pubblicata dal Washington Post in una campagna senza precedenti, porterà all’apertura del procedimento di impeachment verso il Presidente Nixon, costretto poi a dimettersi nell’agosto del 1974, grazie anche alla pressione esercitata da un’opinione pubblica ben informata.

Per il regista Alan Pakula, newyorchese di origini polacche, è il film della carriera. Sceglie con intelligenza uno stile diretto ed essenziale, che dà buon ritmo al complesso intreccio della vicenda. Contrappone visivamente, in modo efficace, la redazione del giornale, ben illuminata come i volti dei due reporter, con la penombra dei corridoi del potere, e con quella delle case e dei sotterranei dove essi incontrano le varie “gole profonde” della storia. In sintesi, il cinema americano al suo meglio, quello dei generi cinematografici classici e del racconto lineare intellegibile.

Il tema del film, come detto, è quello del ruolo di contropotere dei mezzi di informazione: la stampa libera come il “cane da guardia” della democrazia. “State per scrivere un articolo nel quale direte che l’ex Ministro della giustizia, la più alta personalità giuridica di questo Paese, è un intrallazzatore: siate ben certi che sia vero!” dice il direttore del Washington Post Benjamin Bradlee (un Jason Robards da Oscar) ai suoi giovani cronisti. Non appena la loro inchiesta si fa seria, gli impone un solo limite: quello della verità dei fatti, correttamente accertata. È da notare come in un Paese a informazione pluralista, con un mercato dei media in libera concorrenza come gli Stati Uniti di allora, si poté fare un film di questo tipo, citando per nome e cognome i personaggi coinvolti (Nixon e John Mitchell su tutti), mostrandoli anche in brevi inserti di filmati d’epoca, a soli due anni dai fatti senza venire tacciati di partigianeria politica o ideologica. Si lascia alla sensibilità del lettore tracciare un paragone con la situazione dei media in Italia negli ultimi vent’anni, poiché materia non direttamente pertinente all’ambito della critica cinematografica.

Di argomenti correlati al cinema si può invece riflettere partendo dalla considerazione che Alberto Moravia faceva già nel 1986, quando affermava che “Berlusconi è uno dei massimi responsabili del Paese materialistico e afono in cui viviamo”. Significa: la lungimiranza di un intellettuale. Significa anche: la protervia di un imprenditore che aveva e ha un suo personale concetto di mezzi di informazione, basato su due idee cardine. La prima è quella secondo cui i media siano solo dei contenitori di pubblicità, e all’obiettivo della sua raccolta debbano asservire tutti gli altri obiettivi. Mentre la seconda, scoperta successivamente alla prima, è quella che i media possono efficacissimamente essere la cassa di risonanza del potere dominante.

L’omologazione dei gusti tramite i mezzi di informazione, farciti di pubblicità e volti alla raccolta di consenso plebiscitario e manipolativo al leader con potere di controllo sui media stessi, ha alla lunga in Italia fatto scadere anche il gusto dello spettatore medio per il cinema e l’audiovisivo in genere, ragione principale del decadimento qualitativo dei nostri prodotti mediatico-culturali dell’ultimo ventennio, almeno. La concentrazione proprietaria determinatasi anche nel settore delle società di produzione e distribuzione cinematografica ha fatto il resto. Ma questa è in parte un’altra storia, o forse no.