Ricorre oggi il quarantennale della premiere americana di Arancia Meccanica (A Clockwork Orange) di Stanley Kubrick. Il film fu infatti proiettato in anteprima mondiale a New York il 19 dicembre 1971, in verità con un primo impatto non soddisfacente, tanto che la produzione decise di rinviarne l’uscita in sala di oltre un mese, tempo che servì a Kubrick per un’accorta revisione del montaggio. In Italia venne presentato alla Mostra del Cinema di Venezia del 1972, accolto da pesanti polemiche e indignazione per le esplicite scene di bruta violenza. In Gran Bretagna, dove allora Kubrick viveva e lavorava, il film fu inibito al pubblico dal 1974 fino al 2000, primo anno successivo alla morte del regista. L’avversa campagna della stampa britannica che ne accompagnò l’uscita – si arrivò a ipotizzare l’apologia di reato – spinse infatti il regista a chiedere alla Warner Bros. il ritiro del film dalle proiezioni pubbliche in quel Paese.
Tratto dal romanzo omonimo del 1962 di Anthony Burgess, che scrisse di una futurista banda di teppisti ispirata a quelle comparse nelle city inglesi tra la fine dei Cinquanta e i primi Sessanta, il film ripropone di questo soprattutto il tema centrale, quello della libertà di scelta tra bene e male. Senza questa libertà, l’uomo è ridotto a un’arancia meccanica, cioè un buon frutto dal bel colore, ma che nasconde in sé un marchingegno a molla (clockwork), pronto a scattare a ogni minima sollecitazione. Come ha precisato lo stesso Burgess, che siano sollecitazioni provenienti da “Dio, del diavolo o dello Stato onnipotente”, esse fanno comunque dell’uomo un mero acritico esecutore.
Arancia Meccanica diventa così un’allegoria sulla violenza e sulla frustrazione del mondo contemporaneo, sul rapporto tra istinto primordiale e regole sociali, e in parte anche sul ruolo dei media nell’omologazione dei comportamenti sociali. Il tutto reso dal regista americano con la solita strepitosa abilità visiva. Un testo filmico complesso, che si compone di elementi formali eterogenei, ma che in ultima analisi evoca il (solito) discorso, caro al regista, sull’intrinseco valore – e potere – dello sguardo cinematografico. Con Kubrick è il cinema, quasi allo stato puro, che riflette visivamente su questi argomenti, non tanto essi stessi a fare da contenuto al procedere narrativo e sintattico del film.
Arancia Meccanica comincia da dove il film precedente (2001: Odissea nello Spazio, 1968) era finito. Se lo Star Child appena rinato ci guardava con immensi occhi da bambino alla fine di Odissea, concludendo una sorta di percorso evolutivo dell’umanità tutta guidato dall’atto del guardare (il Cinema), Arancia si apre invece sullo sguardo beffardo di Alex, il giovane violento, asociale e nichilista, ma col gusto della musica classica e dell’arte, protagonista del film. I suoi occhi azzurri, solo uno pesantemente truccato, rimangono fissi nei nostri per diversi secondi. Anticipano, fulmineamente, un po’ tutta l’estetica del film: le due anime del protagonista sono come la doppiezza del suo sguardo.
Il film è in buona parte costruito su una sorta di accumulo di elementi doppi. Dopo l’incipit sui due occhi diversamente truccati di Alex, subito si passa al contrasto tra il bianco e il nero del Korova Milk Bar, ritrovo della banda dei “drughi” da lui capeggiata. Poi si arriva al gioco di specchi nella casa del romanziere Frank Alexander, quello che nel libro di Burgess scrive un romanzo dal titolo A Clockwork Orange (altro doppio). Lungo quasi tutto il film, la musica di Beethoven, alta cultura, commenta o evoca azioni di bassa e feroce violenza. Il bianco delle uniformi dei “drughi” e del “latte più”, il latte alterato dalle droghe, diventa il colore della purezza degenerata.
In questo gioco dei doppi risulta notevole lo sforzo del regista di stilizzare ogni elemento, al fine di costruire un discorso filmico il più possibile simbolico, quasi favolistico, sui riferimenti che emergono dal racconto di Burgess. In questo senso, le scene di esplicita violenza sono di assoluta necessità e funzionali al testo, che non a caso si compone di sequenze al ralenti come di sequenze accelerate, di ampio uso del grandangolo, di musiche originali come di celebri arie classiche rielaborate al synthetizer, e di molti riferimenti sessuali, ora più ora meno espliciti.
Kubrick ci porta così in un universo filmico privo dell’illusione di realtà tipica del cinema classico, specificamente funzionale ai temi ultimi del film. Ai tempi del citato Odissea, egli diceva che “il cinema opera a un livello più vicino a quello della musica o della pittura che a quello della scrittura, i film offrono l’opportunità di veicolare concetti complessi e idee astratte senza servirsi in modo tradizionale della parola”, idea che può essere estesa a tutto il suo cinema. Nel caso di Arancia Meccanica, come già sottolineato, gli elementi simbolici in gioco sono forse più numerosi del solito.
Il film è senz’altro una riflessione, al limite del filosofico, sulla violenza in una società – futuribile – nichilista e massificata. Qualcuno ci ha visto perfino una valenza profetica, nell’anticipare alcune delle problematiche sociali del ventunesimo secolo. Di certo il film, nella sua seconda parte – dalla “cura Ludovico” al finale – introduce una visione critica del ruolo dei media nella società contemporanea che rimanda a qualcosa di già toccato dalla letteratura occidentale, dal celebre 1984 (1948) di George Orwell in poi.
Il film si presta anche a interpretazioni di taglio psicologico, avanzate da diversi critici con l’avallo dello stesso Kubrick: il primo Alex rappresenterebbe l’inconscio, l’uomo allo stato naturale. Poi la “cura Ludovico” lo civilizza, e la malattia che ne segue rappresenterebbe le nevrosi imposte dall’evoluta società dei consumi. Ma si può ipotizzare di più, a costo di sembrare troppo arditi: lo sguardo in macchina di Alex, a noi rivolto, sembra avere la stessa valenza, contenere lo stesso ammonimento di un celebre verso de I Fiori del Male di Charles Baudelaire, col quale il poeta maledetto così apostrofa il lettore borghese benpensante: tu “Hypocrite lecteur ! – mon semblable – mon frère !” (tu, ipocrita lettore, mio simile, mio fratello).
Un grande della storia del cinema come Luis Bunuel, non facile ai complimenti, si spinse fino a dire che “Arancia Meccanica è al momento il film che preferisco. […] È l’unico film che riesca a cogliere realmente l’essenza del mondo moderno”. Commento essenziale, come in fondo è tutto il capolavoro di Stanley Kubrick.