Uscito in sala nel giugno 2001, quasi dieci anni fa, quarto film del regista francese Jean-Pierre Jeunet, Le Fabuleux Destin d’Amèlie Poulain (Il Favoloso Mondo di Amèlie in Italia) divenne in breve un caso mediatico mondiale, amato da pubblico e critica in ugual misura un po’ ovunque. Campione d’incassi in tutto l’Occidente – otto milioni di spettatori nella sola Francia -, il film è stato anche oggetto di ben cinque nomination alle statuette dell’Academy, tra cui quella per il miglior film straniero, senza però vincerne alcuna.
Narra la storia della piccola Amèlie Poulain (Audrey Tautou) che cresce solitaria senza madre, morta in un bizzarro incidente, sognando le attenzioni di un padre apprensivo e poco affettuoso. Divenuta adulta, Amèlie si adatta al lavoro di cameriera in un bar-tabacchi di Montmartre, quartiere degli artisti a Parigi. Quando per caso trova una scatoletta di vecchi giochi, nel giorno della morte di Lady D, scopre la missione della sua vita: aiutare il destino degli altri affinché trovino la felicità nelle piccole cose. Così facendo, trova alla fine anche il coraggio di aggiustare la propria vita, e l’uomo giusto da amare.
Come evocato dal suo titolo, il film appare a un livello superficiale come una sorta di favola o di fiaba moderna. Ricordiamo per inciso che i due termini derivano dall’analisi letteraria, e in particolare definiscono due tipi di componimenti, di origini antichissime: la favola è uno scritto breve in versi con protagonisti animali o esseri inanimati, rappresentativi di vizi e virtù umane, composto con finalità didascaliche o morali; mentre la fiaba è un racconto avventuroso e fantastico, i cui protagonisti sono esseri dotati di eccezionali poteri: maghi, streghe, folletti, orchi, gnomi e fate.
Velato ad arte dall’indubbio fascino favolistico della narrazione, questo film è in realtà quasi per intero un discorso interno al mondo dei media in generale, in particolare al cinema stesso; in questo caso inteso – il mondo dei media – come l’insieme dei mezzi della comunicazione più propriamente artistico-visiva. Si tratta di un film concepito e costruito come una variegata istanza comunicativa (artistica) di carattere metalinguistico, cioè una comunicazione che ha per oggetto il linguaggio stesso di cui essa si in-forma. A poco c’entrano gli intenti didascalici, morali e avventurosi propri delle forme fiabesche e favolistiche sopra ricordate.
Vero è che gli avvenimenti in cui Amèlie si imbatte e i suoi comportamenti ricalcano l’incedere di una fiaba. Ma il modo in cui tale storia è raccontata, quindi mostrata al pubblico nella sua peculiare messa in scena, frutto di precise scelte stilistiche e visive, disegna attorno alla protagonista e al suo mondo un testo filmico assai complesso.
Alla base del film c’è un curioso découpage fatto con gli elementi fondanti del cinema. La raccolta delle fototessera strappate e ricomposte evoca il montaggio dei fotogrammi di una pellicola. Il cliente del bar che registra e risente la propria voce e quella altrui evoca il sonoro e il doppiaggio. La lettera costruita da Amèlie con altre vecchie lettere e recapitata alla coinquilina vedova evoca dialoghi, sceneggiatura e ancora il montaggio. La collega di Amèlie che fa ripetere al ragazzo alcuni noti proverbi evoca la recitazione. L’evidente e funambolico movimento di macchina a seguire Amèlie che fuori dalla stazione insegue il ragazzo che fugge in motorino, e perde l’album di foto, evoca la regia. L’elaborato scherzo giocato per due volte al cattivo fruttivendolo evoca la trama. E gli effetti speciali, disseminati a profusione in tutto il film, non evocano altro che se stessi.
Il film è insomma un pazzo mondo alla Jacques Tatì, dove la protagonista è una sorta di Alice nel paese della meraviglie mediatiche, che si districa tra una selva di citazioni e ri-mediazioni, che mette in atto un gioco polimorfo e spettacolare con i linguaggi dei diversi media visivi: cinema d’autore, cinema d’animazione, fotografia, pittura e graphic design, estetica del videogioco e dei clip pubblicitari. Regina del gioco è, naturalmente, la cinefilia: incastrati nel magma meta-mediatico del film, si vedono, a volte appena si scorgono, pezzetti del cinema di Truffaut, di Godard, dello stesso Jacques Tatì, delle comiche slapstick e delle “vedute animate” dei Lumiere. Senza dimenticare che, non a caso, il dipinto che il vecchio dalle ossa di vetro riproduce di continuo è del pittore impressionista Auguste Renoir, padre di Jean, indiscusso maestro del cinema moderno.
Come film dal chiaro valore meta cinematografico, cioè di un film che in ultima analisi parla del cinema stesso e del suo linguaggio, esso vanta famosi ed esemplari precursori, a cominciare dal manifesto avanguardista della teoria del cine-occhio di D. Vertov L’Uomo con la Macchina da Presa (1929), passando per il classico di Hitchcock La Finestra sul Cortile (1954), al giocoso smascheramento del linguaggio che W. Allen opera ne La Rosa Purpurea del Cairo (1985), fino a L’Occhio che Uccide (M. Powell, 1960), laddove è il genere horror a farsi cinema.
Gli occhi immensi e profondi di Amèlie ricordano poi quelli di Cabiria (Giulietta Masina) nel felliniano Le Notti di Cabiria (1957). Ci rammentano come spesso il cinema sia fatto di gente che guarda qualcosa o qualcuno, gente che si guarda reciprocamente sullo schermo e a volte dallo schermo guarda noi spettatori nella platea buia. Gli splendidi oci ciornie di Amèlie sono come una sorta di cine-occhio fiabesco di rimando interno, che anche fanno il paio con lo sguardo siderale dello star-child di 2001: Odissea nello Spazio (Kubrick, 1968).
Che cosa ci permette da oltre cento anni di guardare e amare questi occhi se non il cinema stesso? Lo sguardo di Amèlie esemplifica e sintetizza in un battito di ciglia l’essenza medesima della settima arte: il film diventa così anche una dichiarazione d’amore del suo autore verso l’incanto che l’arte cinematografica da sempre possiede e trasmette.
Il Favoloso Mondo di Amèlie è poi anche un viaggio, giocato tra il nostalgico (colori fiabeschi) e il virtuale, nella Parigi dei grandi pittori e poeti dell’otto-novecento. Un omaggio ai luoghi simbolo della città che vide la nascita delle migliori avanguardie nel campo delle arti figurative, come dadaismo, cubismo e surrealismo, nonché della stessa settima arte. Ennesimo elemento del colorato découpage che ha fatto di Amèlie uno dei più interessanti, originali e variegati film meta-mediatici del panorama cinematografico contemporaneo.