Cinquant’anni fa, Pier Paolo Pasolini esordiva alla regia cinematografica. Il suo primo film Accattone venne infatti girato tra la primavera e l’inizio estate del 1961, quindi proiettato fuori concorso al Festival di Venezia il 31 agosto successivo, anche se ancora privo – per questioni di presunta oscenità – del visto censura per le sale. Il film ottenne poi due mesi più tardi un visto ministeriale di divieto ai minori di anni diciotto e poté allora essere proiettato in pubblico.

La storia del film è incentrata su un protagonista unico, Cataldi Vittorio, detto Accattone, magnaccia di borgata che vive in una casa diroccata ai margini della periferia romana. Quando la sua protetta, Maddalena, viene arrestata, Accattone rimane senza “lavoro” e tenta di tornare dalla moglie Ascenza, che però lo rifiuta. Conosce allora una ragazza giovane e ingenua, Stella, della quale si innamora. La giovane ricambia Accattone, vincendo timidamente le inibizioni del proprio vissuto familiare (è figlia di una prostituta).

L’esperienza sembra avere su Accattone un effetto benefico: insoddisfatto di sé come mai prima, tenta la strada del cambiamento cercando un lavoro; che trova con l’aiuto del fratello Sabino. Ma la atavica disperazione della propria condizione di reietto lo ha reso incapace di prestare fede a un tale proposito: dopo un solo giorno lascia il lavoro e, dopo aver sognato come un presagio il proprio funerale (che ha luogo in un cimitero sporco e fatiscente), decide di mandare a battere la povera e rassegnata Stella. La ragazza, però, è troppo timida e non vi riesce. Accattone deve allora tentare altro per mantenere sé e Stella. Accetta così di aiutare il compagno di borgata Balilla in qualche furto. Ma nel frattempo Maddalena ha saputo, in carcere, della nuova fiamma di Accattone e così lo ha denunciato. La polizia ora lo controlla.

Durante un furto di salumi, Accattone, Balilla e un altro giovane di borgata vengono colti in flagrante dagli agenti: Accattone, nel tentativo di fuggire su una motocicletta, è investito da un camion e, morente, dichiara l’ineluttabilità del proprio tragico destino mormorando: “Ah .. mo’ sto bbene”. Il film si chiude sul segno della croce fatto dal ladro Balilla, in manette, sulle note della Passione Secondo San Matteo di Johann Sebastian Bach.

Pasolini per l’esordio alla regia sceglie una vicenda di reietti di borgata sottoproletaria, tratta da un suo soggetto originale. Una storia con un unico tragico protagonista, e un sottofondo di ladruncoli, “papponi” e prostitute, adolescenti spiantati senza famiglia, varia umanità scandalosa e violenta. Una sorta di simbolica parabola, che parte dalla vita miserabile del protagonista, passa per velleitari tentativi di riscatto e giunge alla morte come ineluttabile destino degli ultimi. E la simbologia qui in gioco riguarda, per ammissione dello stesso regista, la Storia, proprio intesa nel senso del romanzo di Elsa Morante: “Uno scandalo che dura da diecimila anni”.

Vista la materia narrata, il film fu fatalmente al centro di varie polemiche e il regista fu personalmente oggetto di pesanti accuse mossegli da più parti, perfino istituzionali (il Parlamento). Tali accuse vertevano soprattutto sulla “incomprensibile solidarietà e simpatia” con cui Pasolini ritraeva, addirittura con stile sacrale, i miserabili sottoproletari protagonisti del suo film. Ciò nondimeno, esse coglievano involontariamente nel segno, poiché l’intento del regista era anche quello di mettere in evidenza una peculiare contraddizione: quella di poter usare un media borghese e privilegiato per rappresentare un’umanità di scarti, condannata a una misera sopravvivenza ai margini di quella stessa società borghese che a lui, autore affermato, offriva il suddetto media espressivo.

Così, nella sua prima opera come regista, Pasolini, scrittore e saggista politicamente schierato, metteva in campo lo spirito del proprio impegno politico e civile: sfruttare un mezzo di produzione di cultura di massa (il cinema) per mettere in contraddizione dall’interno l’etica borghese corrente, ipocrita e falsamente democratica. La prima opera filmica fu per Pasolini anche una lucida trasposizione al cinema della materia della propria ispirazione letteraria: quel sottoproletariato urbano vitale, autentico e destinato alla crudeltà, in perenne tragica lotta col mondo sovrastante; esattamente la stessa materia che informò i romanzi che lo hanno reso famoso: Ragazzi di Vita (1955), Una Vita Violenta (1959).

In occasione della prima televisiva del film, avvenuta solo nel 1975, Pasolini scrisse per Il Corriere della Sera un celebre corsivo, sostenendo che “tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. […] Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo corpo neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone”.

Con questo profetico commento, nell’anno della morte, il regista rimarcava i notevoli mutamenti avvenuti nella società italiana in pochi anni, innescati dalla “nuova barbarie” del boom economico, evidenziando anche che la sotto-società fotografata da Accattone semplicemente non esisteva più. Il genocidio cui accennava Pier Paolo Pasolini non è altro che l’omologazione che la società borghese, capitalista e dei consumi di massa impone a ogni cosa, è la sua opera di mercificazione della cultura, è la sua apparente tolleranza e filantropia che in realtà nascondono le sue naturali tendenze antidemocratiche.

Dio solo sa che cosa Pasolini direbbe della società italiana di oggi e della sciagurata classe politica che la tiene in scacco, anche per tramite di media a essa strategicamente asserviti.