Da autentici adoratori delle immense potenzialità che la settima arte offre a un qualunque cineasta dotato di minimo buon senso, conosciamo il film del pur bravo Claude Lelouch Un Uomo, Una Donna come la quintessenza dei luoghi comuni sulle storie d’amore – letterarie, teatrali o cinematografiche che esse siano.

Anzi: il film non è neanche una storia d’amore, ma appena l’incipit della medesima, di essa è solo un lacrimoso preambolo, spalmato tra tempi rarefatti e flashback furbastri, fotografato secondo estetica da spot pubblicitario. Ciò nonostante, Un Uomo, Una Donna si aggiudicò la Palma d’Oro al Festival di Cannes del 1966, vale a dire il premio al miglior film in concorso. Cui si aggiunse, l’anno successivo, l’Oscar per il miglior film straniero. Premio, quest’ultimo, che per comprensibili ragioni desta molto meno stupore del primo.

La storia è così riassumibile. Anne (Anouk Aimèe) è una giovane di recente vedova a seguito di incidente, che lavora nel mondo del cinema. Jean-Louis (Trintignant) è un pilota automobilistico, anch’egli vedovo, per giunta di moglie suicida. I due si incontrano al villaggio di Deauville dove i rispettivi figli frequentano il locale collegio. Scocca la fatidica scintilla. I due si rivedono a Deauville, si separano, ancora si ritrovano. Alfine la loro relazione pare avviata, suggellata da un romantico incontro sotto l’immancabile pensilina ferroviaria. Baci abbracci e lacrime (di lei, ovviamente). Fine del film. Amen.

Due ragioni, una storiografica e una critica, ci inducono (o costringono) oggi a ricordare il più celebre dei film di Lelouch, che coincide con una delle più celebri love story della storia del cinema. Innanzitutto, perché ricorre in questi giorni il quarantacinquesimo anniversario della sua sorprendente vittoria a Cannes (maggio 1966). In secondo luogo perché, se pur a tratti tanto zuccheroso da offendere lo spirito con cui i fratelli Lumiere concepirono Le Cinematographe – il prefisso del termine deriva dal greco kinema, cioè “movimento” – esso dimostra, con il suo enorme successo, quanto il mezzo cinema sia di per sé un miracolo capace di ipnosi collettive. Non risulta che possano tanto il teatro, la letteratura e la pittura, tanto meno la scultura. Solo la musica vi si avvicina. Ma quasi mai offrendo il proprio innegabile fascino a un pubblico universale come quello del cinema. Se ne deve dedurre che, in qualche modo, il codice delle immagini in movimento sia il più trans-culturale e trans-epocale di tutti.

La folgorante deduzione impone una divagazione di carattere linguistico. Io non conosco il tedesco: mai potrei leggere (de-codificare) un romanzo come Der Steppenwolf di Hermann Hesse nel suo codice originario. Per conoscerlo ho bisogno di traslarlo (tradurlo) nel mio codice. Già faccio fatica con testi nella mia lingua, quando scritti anche solo cento anni prima della mia nascita. Invece un film come Das Kabinett des Dr. Caligari (R. Wiene, 1920), manifesto dell’espressionismo tedesco circa coetaneo del romanzo di Hesse citato, mi pone difficoltà al più trascurabili, che non mi impediscono di leggere quell’opera d’arte nel suo codice originario, senza la necessità di traslarla (tradurla) in un altro codice a me noto.

Se la cultura di un popolo si dovesse paragonare a un grosso iceberg, la sua parte emersa si chiamerebbe linguaggio: un altro essere umano lo riconosco di cultura diversa dalla mia principalmente se lo sento parlare una lingua diversa da quella che io comunemente parlo e comprendo. Con questo non intendo affatto sostenere che allora gli si debba sparare: il discorso qui è di tutt’altra natura. Si vuole evidenziare come, per le immagini, le barriere culturali siano molto labili. Al limite, per esse, tali barriere non esistono. Un volto ride o piange nello stesso modo in ogni parte del mondo, e così lo ha fatto in ogni epoca della storia. L’immagine di questo ipotetico volto può fare il giro del mondo senza bisogno di traduzioni.

Così il successo di un film come Un Uomo, Una Donna non deve affatto sembrare scandaloso, ne tantomeno usurpatore di un qualche diritto altrui: un linguaggio trasparente e popolare è quello che ha sdoganato il cinema delle origini, trasformandolo in breve tempo da fenomeno da baraccone a industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. Un cinema siffatto è stato poi trasversale a tutte le epoche e a tutti i paesi. È rimasto sempre più o meno uguale a se stesso, arrivando a noi parallelamente al cinema delle avanguardie, a quello d’autore e dei movimenti, a quello della modernità e del suo superamento.

L’anniversario offre quindi un ulteriore motivo per riflettere sull’innata forza del media cinema, che ha trovato storicamente il modo di contenere in sé tutti i registri. Il film di Lelouch infatti, pur girato in piena epoca rivoluzionaria della nouvelle vague e con tecniche innovative, riflette comunque i caratteri del cinema di sempre, quello che onestamente risponde al bisogno di conforto narrativo ed emotivo del grande pubblico. Non è lo spettatore con eccessiva fame di zucchero che perde: ancora e sempre è il cinema a vincere, come superbo veicolo di istanze, sia visive che narrative, al tempo stesso sia alte che popolari.