«Bring me my Bow of burning gold: / Bring me my Arrows of desire: / Bring me my Spear: O clouds unfold! / Bring me my Chariot of fire»; «Portami l’arco d’oro che incendia: / portami i dardi del desiderio: / portami la lancia: oh! le nubi diradano, / portami il carro di fuoco». Questi pochi versi di William Blake contenuti in un suo breve componimento del 1804 – poi musicato nel 1916 con il titolo di Jerusalem – sono stati di ispirazione allo sceneggiatore Colin Welland per il nome definitivo da dare ad uno script che stava perfezionando proprio nel momento in cui, una domenica sera, sentì questo inno sacro presentato in uno storico programma della BBC.
Quelle pagine sarebbero diventate la base di uno dei più fortunati film di ambito sportivo che la storia del cinema ricordi, una pellicola che proprio trent’anni fa iniziava la sua marcia verso il successo inserita in concorso al Festival di Cannes, nell’edizione che avrebbe incoronato con la Palma d’oro L’uomo di ferro (Czlowiek z zelaza) di Andrzej Wajda. Chariots of Fire (per noi italiani meglio noto come Momenti di gloria) del 45enne Hugh Hudson, regista proveniente dal mondo della pubblicità, sarebbe invece stato premiato per l’attore non protagonista (Ian Holm), ricevendo inoltre – insieme a Uno sguardo, un sorriso (Looks and Smiles) di Ken Loach – una menzione speciale dalla giuria ecumenica. Un anno dopo – sabato 29 maggio 1982 al Dorothy Chandler Pavillion di Los Angeles – sarebbe giunta la consacrazione con quattro Academy Awards (su sette candidature): migliori film, sceneggiatura originale (Welland), colonna sonora originale (Vangelis) e costumi (Milena Canonero).
Proviamo per l’occasione a “ri-attraversare” questa pellicola, cercando di metterne in luce gli aspetti per la quale occupa ancora un posto particolare nella memoria di molti appassionati (in primis di chi scrive). I “momenti di gloria” del titolo italiano sono quelli che vivono i due protagonisti, Harold Abrahams e Eric Liddell, parte di quel gruppo di «pochi giovani con speranza nei loro cuori e ali ai loro talloni», come afferma nelle primissime inquadrature l’ormai anziano Andrew Lindsay. È su queste parole che inizia un flashback, un ritorno al passato che di fatto occupa l’intera durata del film, scandito dalle celebri note dei Vangelis (Evangelos Odysseus Papathanassiou).
Harold Abrahams, il cui padre è un ebreo lituano, trapiantato nell’Inghilterra di inizio Novecento, sente intorno a sé la diffidenza e l’astio che tradizionalmente circondano il suo popolo: «A volte mi dico: “Attento, ti stai immaginando tutto”. Poi rivedo quello sguardo. Lo sento nel tono di un commento. Sento la ritrosia di una stretta di mano». Egli ne soffre («È doloroso, un senso di inadeguatezza e di rabbia. Ci si sente umiliati») ma non accetta la situazione e trova nell’atletica il suo strumento di rivincita.
È lui stesso ad ammetterlo, durante il primo incontro con la futura compagna Sybil Gordon: «Direi che è la mia droga. E la mia arma di difesa. Contro l’essere ebreo». La sua è una lotta – fatta eccezione per i pochi e fidati amici come il compagno di studi Aubrey Montague – contro il mondo intero: «Li sfiderò tutti. Uno alla volta. E gli farò mangiare la polvere».
Pur avendo delle comprensibili motivazioni, nel proprio tentativo di rivalsa personale, la pretesa di poter fare tutto da sé è fin da subito votata al fallimento, che arriva nella gara per le qualificazioni olimpiche a Londra, quando è battuto nettamente da Liddell. È in questa occasione che tutti i suoi limiti vengono a galla e a poco servono le rincuoranti parole di Sybil, alla quale confessa con rassegnazione che «non posso correre più veloce».
Questa sarebbe la parola “fine” alle sue ambizioni se non si facesse avanti Sam Mussabini, allenatore professionista, alle cui cure egli si affida. Così quello che prima pensava di raggiungere per conto proprio, ora gli riesce grazie all’aiuto di un maestro che lo guida, lo ri-educa, gli ri-dona forma («Figliolo, se è in gamba, La smonterò pezzo dopo pezzo») e Harold si lascia “ri-fare”, perché solo una è la decisione più ragionevole che uno può prendere in queste situazioni: seguire chi gli sta davanti.
L’unico errore che Harold commette sta nel puntare troppo su quello che ha dichiarato essere il suo scopo principale: la vittoria. Nel rincorrerla con troppa foga, anche se per le ragioni che già conosciamo, il rischio è quello di lasciarsi determinare da quest’unica circostanza, in funzione della quale uno non può certo costruire la propria esistenza. Ed è proprio questo il timore che, poco prima della gara decisiva, assale Harold.
Ecco allora lo sfogo al quale si lascia andare con Montague: «Sono sempre alla ricerca e non so neanche di cosa. Caro Aubrey, ho paura. […] Tra un’ora scenderò di nuovo in pista. Solleverò gli occhi verso quel rettilineo largo 120 centimetri e in dieci secondi dovrò giustificare la mia esistenza. Ma ce la farò? Aubrey, conosco la paura di perdere. Ma ora ho quasi paura di vincere».
Si spiega così il contraccolpo – è l’unico del team inglese a non festeggiare con gli altri – cui egli deve far fronte dopo la vittoria, con la quale ha comunque visto sfumare qualcosa che lo aveva fin lì animato, un qualcosa quindi di troppo limitato, inadeguato per dare significato all’intera esistenza di un uomo. Qualcosa che va invece ricercato in altro.
Un Altro di cui il secondo protagonista della vicenda, Eric Liddell, è espressione e si è fatto umile strumento. Anch’egli insegue la vittoria al pari di Harold ma non si lascia definire come lui dal risultato finale, qualunque esso sia. Quella che è la sua natura, la sua statura di uomo sta tutta nell’affermazione (decisiva, totale, illuminante) con cui giustifica il suo impegno per la preparazione olimpica agli occhi della scettica sorella: «Jeannie, cerca di capirmi. Credo che Dio mi abbia creato per uno scopo. Per la Cina. Ma mi ha anche creato veloce. E quando corro… Sento che a Lui fa piacere. Lasciando l’atletica, Gli mancherei di rispetto. Avevi ragione. Non è solo un passatempo. Vincere significa onorare Dio».
E questo è qualcosa di più grande e di più forte anche delle “autorità” che hanno cercato di farlo ritornare sulla sua decisione di non correre di domenica in quanto giorno dedicato al Signore. Lo scambio di battute tra il duca di Sutherland e Lord Birkenhead è indicativo: «La velocità è il prolungamento della sua forza vitale. Volevamo separarlo dalla sua corsa»; «Sì, ma nell’interesse del suo Paese… »; «Nessun interesse vale tanto. Tanto meno un orgoglio nazionale colpevole».
Anche l’avversario Jackson Scholz, uno dei rappresentanti del team statunitense, riconosce l’importanza che questo riveste per Eric. Così si esprime mettendo in guardia uno dei suoi compagni prima della gara: «Ha qualcosa di personale da dimostrare. Qualcosa che uno come il mister non capirà mai».
La Speranza che costituisce e “tiene assieme” il cuore di Eric, determinandone la coscienza con cui affronta tanto la corsa quanto la vita, trova ulteriore risalto nel sermone che lui stesso tiene (citando il profeta Isaia) in una chiesa di Parigi: «Non lo sai forse? Non lo hai udito? Dio eterno è il Signore, creatore di tutta la terra. Egli non si affatica né si stanca. Egli dà forza allo stanco e allo spossato moltiplica il vigore. Ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi».
Colpisce il fatto che, mentre queste parole vengono proclamate, sullo schermo scorrano le immagini delle fatiche e delle sconfitte degli altri atleti inglesi impegnati nelle gare olimpiche. Questo per rendere evidente come quel Dio che Eric serve rappresenta l’ipotesi positiva su tutto ciò che si vive, proprio tutto, anche sulle delusioni, sulle amarezze o su quegli episodi che con la gloria – dell’uomo e di Dio, comunque la nostra limitata misura potrebbe intenderla – non sembrerebbero avere niente a che vedere.
Come ha sintetizzato Morando Morandini, «[è] un film sincero, sostenuto da un trasparente fervore morale, che sa conciliare gli intenti spettacolari con le ambizioni d’autore, la nostalgia per un’epoca di solidi ideali con una rappresentazione che sa essere anche critica. Ebbe 4 Oscar […]. Il tema di Vangelis divenne un hit e il produttore David Puttnam un eroe dell’imprenditoria britannica. Non male per un regista esordiente».