Al suo quinto lungometraggio in 38 anni di carriera dietro la macchina da presa, Terrence Malick – accostandosi più ad Andrej Tarkovskij che a Stanley Kubrick – cerca di dare espressione all’indicibile, tentando di filmare l’irrappresentabile. Il risultato? Forse qualcosa che differisce dall’opera epocale da molti attesa, ma che si (im)pone fin dalla prima visione come un poema visivo e sonoro di proporzioni senza precedenti e attraversato da uno struggente lirismo; un’esperienza a suo modo “rivoluzionaria” in quanto personalissima, quindi unica e irripetibile, squadernata alla maniera di note e pagine dal diario di una grande anima caratterizzate da un immenso talento espressivo e da un’inattesa e sotterranea vena autobiografica. Quella di un uomo che non vuole certo rabbonire con filosofie new age o umanesimi a buon mercato, ma suggerire a quanti vengono raggiunti da queste nuove Confessioni in celluloide quella che è la conquista della conoscenza di sé e del mondo maturata nel corso di una vita: la propria.

Non una sterile speculazione fine a se stessa, ma una drammatica riflessione esistenziale su Vita, Grazia, Natura, Libertà, Male, Dolore, Perdono, Morte e Destino che vuole aprirsi (e aprire) a domande radicali piuttosto che “con-cludere” un discorso, registrando un poderoso dato di fatto: l’appartenenza di questa umana epopea – che ne reca l’impronta – a un Disegno tanto misterioso quanto buono. Annunciatissima e indiscutibile Palma d’oro al Festival di Cannes 2011.

Ci sia consentita una premessa di carattere personale: chi scrive non era ancora nato quando 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey, 1968) usciva nelle sale portandovi la sua epica peregrinazione che andava da “L’alba dell’uomo” a “Giove e oltre l’infinito”, mentre invece era solo un bimbo quando Blade Runner (1982) di Ridley Scott – denso di umori e atmosfere che avrebbero fatto epoca – vi arrivava con tutto il suo struggimento per le «lacrime nella pioggia» di un replicante «più umano dell’umano».

La passione per il cinema che si è molto più tardi prepotentemente accesa – sorta da altri (pochi) titoli – si era quindi dovuta accontentare, per entrare in contatto con le opere dei periodi citati e di quelli precedenti, dei soli strumenti a portata di mano, ovvero televisione, videocassette e dvd. Questo amore ha poi avuto ovviamente la possibilità di continuare e maturare anche in sala, dove si è d’un tratto scoperta la presenza di qualcuno riemerso chissà da dove che guardava le cose come non le avevamo ancora guardate o viste guardare.

Allora (era la fine degli anni Novanta) La sottile linea rossa (The Thin Red Line) ci investì come una potente rivelazione, di cui oggi – dopo l’immenso e indimenticabile The New World – Il nuovo mondo (The New World, 2005) -, The Tree of Life rappresenta una straordinaria conferma che lascia anche più ammirati e commossi, come appassionati e come uomini, quasi si trattasse di un regalo, di un cordiale e definitivo atto di amicizia da parte dell’autore, Terrence Malick.

Il primo “Albero della Vita” che ci è dato di contemplare non è nemmeno quello che ci attende nel buio della sala, ma ci è offerto dalla locandina internazionale del film, la prima a essere anticipata in rete nei mesi precedenti la sua uscita: sono le linee della minuscola pianta del piede sinistro del neonato che nel film presta le sue fattezze a Jack, il primogenito della famiglia O’Brien (i cui eventi familiari – uno tragico su tutti – sono il motore narrativo del film), un piede trattenuto tra due mani di adulto (con tutta probabilità quelle della madre).

Il poster italiano ci mostra invece una sorta di ideale semi-controcampo di quel fotogramma, ovvero gli occhi del padre che rimirano quel tanto minuto quanto glorioso spettacolo. In questa sorta di incipit – anche se esterno alla pellicola vera e propria – sta però già tutto l’atteggiamento di meraviglia e speranza che Malick vi ha riversato e che guida questa sua ultima fatica, a trentotto anni dal suo esordio dietro la macchina da presa con La rabbia giovane (Badlands, 1973). E grande è l’emozione di tornare a vedere per gran parte di quest’opera così altamente personale quelle «alleys and back ways» degli anni Cinquanta da dove aveva preso le mosse l’immaginario cinematografico dell’allora trentenne sceneggiatore e regista statunitense.

Iniziamo con il mettere nella giusta luce quanto di potenzialmente autobiografico – cosmogonia, dinosauri e visione finale a parte – nascondono le vicende familiari narrate estesamente nel film, a partire da alcuni dettagli ambientali fino alla particolarità di alcune corrispondenze che poco sembrano avere di casuale. Per quanto ci è dato di sapere sullo schivo regista, egli nasce a Waco in Texas – la stessa città della famiglia O’Brien – il 30 novembre 1943: il padre Emil è un geologo che lavora (forse come dirigente) nell’industria petrolifera mentre la madre è una casalinga di origine irlandese.

Terrence è il primo di tre fratelli, Chris e Larry, con i quali cresce tra l’Oklahoma e la città di Austin. Ma è un’altra tragica similitudine quella che in sala ci ha fatto letteralmente sobbalzare sulla poltrona: alla fine degli anni Sessanta il fratello Larry, mentre è in Spagna per studiare chitarra classica con Segovia, in un momento di depressione, dovuto al proprio sentirsi inadeguato, si frattura volontariamente entrambe le mani e poco dopo si suicida. Sembra che subito dopo la notizia dell’incidente alle mani, Malick sia stato invitato dal padre ad andare a riprendere Larry e che, al suo rifiuto, sia stato Emil a dover partire per la Spagna, tornando a casa – infine – con il cadavere del figlio.

Un fatto che, non appena accennata la ferita drammatica da cui prende le mosse il “cammino” familiare narrato nel film, non ha potuto fare a meno di segnare ai nostri occhi le profondissime origine, tensione e natura che animano un’esperienza totalizzante quale sono questi magnifici e lancinanti 138 minuti di Cinema, una personale riflessione sul Dolore (e quindi sull’Essere, sul Male e la loro origine) che si apre fino a diventare un inno alla Gloria della Vita.

Torniamo però all’atteggiamento di stupore di cui si diceva, perché il vero e proprio incipit della pellicola è rappresentato da una didascalia su fondo nero tratta dal capitolo 38 del Libro di Giobbe («Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? […] Mentre giovano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?»), questo poco prima che una forma luminosa di non meglio precisata origine – che tornerà a scandire le diverse sezioni del film – fenda il grande schermo, accolta dal voice-over di Jack adulto (Sean Penn) che afferma: «Fratello… Madre… sono stati loro a condurmi alla Tua porta».

E subito dopo, sulle inquadrature della propria madre ancora bambina e poi già circondata dai suoi figli, ecco un altro voice-over, questa volta di lei adulta (Jessica Chastain), quasi una sorta di “dichiarazione di intenti” iniziale sulle due vie possibili per percorrere il cammino della vita: la via della Grazia e la via della Natura. Scritto così potrebbe apparire qualcosa di sconnesso, ma – ci si creda o no – sulle prime si fa fatica a stare fermi al proprio posto in sala perché la combinazione di immagini e parole non lasciano certo indifferenti, toccando corde più profonde di quanto ci si potesse attendere.

E questo non è che il punto di avvio di un’opera dove queste due strade – man mano che ci si addentra nella pellicola – più che come opzioni esterne tra cui scegliere emergono come due possibilità radicate in modo inestirpabile dentro il cuore dei personaggi descritti, i cui gesti più quotidiani – per come sono raccolti dalla mobilissima macchina da presa e per l’andamento impresso al film – rivelano una bellezza loro connaturata, un “peso specifico” quasi avvertibile in sala e una risonanza eterna all’interno di un’epopea umana che si permette di associare senza alcun timore gli eventi della Creazione con i minimi eventi di una vita o – ad esempio – un enigmatico e a suo modo toccante incontro tra due dinosauri e quello tra due fratelli che la presenza di Libertà e Perdono possono invece riconciliare o – ancora – la domanda se anche nell’esperienza del Dolore e della Perdita (la figura di Giobbe torna non a caso all’interno del narrato) ci sia uno scopo che non è contro l’uomo e la riflessione sul Male («Può capitare a chiunque?» «Nessuno ne parla» «Perché essere buono se Tu non lo sei?»), che dapprima è mostrato come qualcosa da cui proteggere gli occhi dei più innocenti, per poi diventare un interrogativo sulle sue origine e natura e infine il realizzare che è una stortura che ci si porta addosso («Faccio le cose che odio») e che va confidata («Io sono cattivo quanto te. Sono più come te che come lei») e affidata per poter guardare – con ultima amicizia e prospettiva vera – persone e cose.

Da questo e da molto altro che ci è difficile ancora percepire siamo stati raggiunti nello svolgersi di questa ambiziosissima pellicola e, come al solito quando si ha a che fare con un qualsiasi opus malickiano, l’unico rammarico è per quanto (e abbiamo motivo di pensare sia parecchio) è certamente rimasto sul pavimento della sala di montaggio dopo più di un anno di lavoro in questo senso e cinque persone accreditate allo scopo nei titoli di coda. A ogni modo se Steven Spielberg con Schindler’s List (1993) aveva riportato all’attenzione del mondo la tragedia della Shoah mentre in tempi più recenti Mel Gibson con La passione di Cristo (The Passion of The Christ, 2004) aveva risospinto lo scandalo della Croce sulla bocca di tutti, ora tocca registrare il fatto che il poeta-regista-filosofo Terrence Malick con le ricchissime ramificazioni del suo “albero della vita” è riuscito a riproporre sulle pagine dei giornali anche non specializzati le domande più radicali riferite allo struggimento per una grandezza piena e al “pre-sentimento” per un destino buono per i quali noi tutti siamo stati voluti.

L’augurio sincero che ci coglie alla fine della visione di quest’opera è che il suo cammino tra gli appassionati di cinema (ma non solo) – così come la strada che spinge a fare – siano realmente solo all’inizio, anzi, che rappresentino davvero un “nuovo inizio”, una sfida e una proposta serie, solide e lanciate come quel ponte che la chiude, a tagliare l’inquadratura finale e a fare da passaggio tra un qui e ora e un oltre che si coglie e pronto ad attenderci, mentre un gabbiano si libra radente tra i suoi pilastri.